Eventi e Spettacoli

Gli eventi e gli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame

Mistero Buffo (dalle origini) - Dario Fo e Franca Rame in scena al Teatro Nuovo di Milano

dal 4 al 16 gennaio al Teatro Nuovo di Milano

 

Esattamente 41 anni fa andavamo in scena qui a Milano con Mistero Buffo. Era il 1969. Recitavamo in un capannone di una piccola fabbrica dismessa dalle parti di Porta Romana che noi avevamo trasformato in una sala di teatro con il nostro gruppo.

In quell’occasione Franca ed io ci alternavamo sul palcoscenico eseguendo monologhi di tradizione popolare, tratti da giullarate e fabliaux del medioevo, non solo italiane, ma provenienti da tutta Europa. Lo spettacolo ottenne grande successo e venne replicato centinaia di volte nel nostro teatro di via Colletta, in palazzetti dello sport, chiese sconsacrate, locali cinematografici, in balere e perfino in teatri normali. Mistero Buffo cercava di dimostrare che esiste un teatro popolare di grande valore, nient’affatto succube o derivato da testi della tradizione erudita, espressione della cultura dominante.

In quell’occasione ci si sentiva ripetere a tormentone: «Non esiste una forma espressiva popolare autonoma perché l’unica cultura autentica e di pregio è quella espressa dal potere dominante. L’altra, quella cosiddetta popolare, in verità è solo risultato di scopiazzature.» Insomma: gli unici poeti validi sono quelli dalle corti dei principi e dell’alta borghesia. Fu proprio in quel tempo che scoprimmo dei ricercatori di grande valore che ci davano ragione, a cominciare da Pitrè, Toschi e De Bartholomeis, Tullio de Mauro e Gianfranco Folena, il quale nel suo saggio “Il Linguaggio del caos” ci dedicava uno straordinario capitolo (“Le lingue della commedia e la commedia delle lingue”) nel quale, fra l’altro, diceva: «l’interlingua teatrale di Fo non richiede dal pubblico per essere intesa specifiche competenze dialettali perché la mimica, il lazzo, l’onomatopea compensano l’apparente arbitrarietà linguistica e la carenza semantica e perché Fo, grandissimo mimo, padroneggia da maestro le tecniche del discorso e della narrativa popolare. [...] Se volete godervi per esteso il significato di giullare, se pur tradotto nel nostro tempo, andate ad assistere a qualche brano di Mistero Buffo messo in scena da Franca Rame e Dario Fo. Lì potrete ottenere un’idea del tutto credibile di cosa fosse il teatro satirico dei giullari medioevali.»

Debuttando anche fuori dall’Italia dall’Inghilterra alla Spagna, per poi arrivare in Grecia e in Russia, rintracciavamo brani del tutto sconosciuti raccolti da ricercatori di Paesi e culture diverse. Noi li si metteva in scena quasi a soggetto. Il testo definitivo lo si stendeva solo dopo averlo recitato per mesi interi. Ritrovammo canovacci rappresentati secoli fa dai comici dell’arte, soprattutto in Francia, brani recitati da Arlecchino e da altre maschere, e in seguito a un nostro viaggio in Cina riuscimmo ad arricchire il nostro repertorio anche della “Storia della tigre”.

Così, ad un certo punto, ci accorgemmo recitando a Roma nello chapiteau di un circo viaggiante che raccoglieva più di 2000 persone che la mole del testo di Mistero Buffo si era ormai decuplicato. Per riuscire a misurarne la dimensione decidemmo di recitare ogni sera uno spettacolo con testi completamente differenti. Così si giunse a mettere in scena la bellezza di sei “Misteri Buffi”.

Ma se dovessimo oggi ripetere lo stesso esperimento, siamo certi che la sequenza delle nostre esibizioni raggiungerebbe il numero di dieci e più testi autonomi. Oggi, dopo quasi mezzo secolo, torniamo in scena, di nuovo a Milano, con una selezione di questo nostro spettacolo “dei primordi”. Non ci è stato facile decidere quali testi privilegiare. Siamo sicuri che durante queste due settimane di teatro, nelle varie serate inseriremo qua e là altri testi e soprattutto andremo recitando all’improvviso in modo a dir poco esagerato.

Ma dovete capire: per noi recitare non è solo un mestiere, ma è anche e soprattutto un divertimento. Che raggiunge il massimo del piacere quando riusciamo a inventarci nuove situazioni e buttare all’aria convenzioni e regole. Speriamo di comunicarvi questo nostro spasso e di riuscire a sorprendervi, farvi ridere e magari pensare.


Il mistero buffo di un'Italia derubata da chi è al governo

Mistero buffo è il capolavoro di Dario Fo. L’opera presentata per la prima volta nel 1969, ha segnato il rinnovamento del teatro italiano e ancor oggi, nonostante le opportune revisioni effettuate dall’autore, mostra tutto il genio creativo e l’abilità scenica del Premio Nobel per la Letteratura 1997.

Mistero buffo, che andrà in scena domani sera alle 21,30 a Palazzo Farnese, nell’ambito della rassegna Cavaliere Azzurro Festival, coordinata da Paola Pedrazzini, è certamente il più noto, in Italia e all’estero, tra gli spettacoli di Dario Fo e anche quello che ha destato più polemiche.

http://www.francarame.it/files/misterobuffo.pdf


La strage sul lavoro alla Umbria Olii

E’ colpa loro” Un operaio morto è un operaio colpevole.

ADESSO BASTA!

Lettera d'appello: Partecipate alla fiaccolata del 19 Luglio 2008 per ricordare i quattro operai morti carbonizzati nella strage sul lavoro alla Umbria Olii di Campello sul Clitunno.

 

http://www.francarame.it/files/volantino_fiaccolata_umbra_olii_copia.pdf

L'amministratore delegato della Umbria Olii, Giorgio del Papa, ha chiesto un risarcimento di ben 35 milioni di euro ai familiari delle vittime,  ha ricusato il Gip a otto giorni dall'udienza dell'11 Luglio (sapendo che la Procura di Spoleto l'avrebbe rinviato quasi sicuramente a giudizio), ha denunciato i periti del tribunale che avevano redatto una perizia a lui avversa, e l'assicurazione Unipol che ha liquidato i quattro lavoratori morti assolvendoli da qualsiasi responsabilità.

Questo comportamento è il risultato di un’idea diffusa: l’operaio morto è sempre colpevole di disattenzione, incuranza, imperizia.

Non lasciamo che questa idea si diffonda! Non lasciamo che questi lavoratori vengano umiliati anche dopo la morte!

Questa lettera d'appello è rivolta ai politici, ai sindacati, alle istituzioni, al mondo dell'informazione, ai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, semplici lavoratori, blog, ecc.
Partecipate alla fiaccolata per difendere la memoria dei quattro operai morti carbonizzati nell'esplosione alla Umbria Olii di Campello sul Clitunno il 25 novembre 2006: Tullio Mottini, 46 anni, Giuseppe Coletti, 48 anni, Vladimir Todhe, 43 anni, e Maurizio Manili, 42 anni.

Caro Marco, siamo molto spiacenti, ma purtroppo in quel periodo siamo impegnati con spettacoli teatrali in Spagna. Vi siamo vicini. Da senatrice, nella commissione lavoro ho conosciuto il numero dei morti dal 2001 al 2007:  7000! 
Aderiamo, comunque, con tutta la nostra indignazione, alla vostra manifestazione.
Un grande abbraccio

franca rame e dario fo

Per ricordare chi non ha più voce, chi non aveva diritto di lamentarsi, chi adesso viene additato come lo Scemo del Villaggio.
Partecipate numerosi.
Marco Bazzoni-Rappresentante dei Lavoratori per la sicurezza
Lorena Coletti, sorella di Giuseppe Coletti, uno dei quattro operai morti nella strage sul lavoro di Campello sul Clitunno.

Eileen Michelle Forsythe, in rappresentanza del forum “Morti Bianche”

Per adesioni, scrivete ai seguenti indirizzi email:
[email protected], oppure: [email protected]


Il Manifesto degli scienziati contro ogni razzismo

S’alza

il sipario sulla kermesse nel parco 

Uno degli obiettivi è quello di cancellare la vergogna del manifesto fascista del 1938 

 PISA. Settanta anni fa, nel 1938, il Manifesto degli scienziati per la razza costituì una specie di prologo alla promulgazione, nel settembre dello stesso anno, delle leggi razziali, firmate da Vittorio Emanuele III proprio a San Rossore. Il tradizionale Meeting voluto dalla Regione - che si apre oggi - si propone di cancellare quel Manifesto, sostituendolo con uno specularmente opposto, che sarà firmato da uomini e donne di cultura, scienziati, semplici cittadini. E’ dedicata infatti al razzismo l’ottava edizione della rassegna che prende il via alle 9,30 nel parco di San Rossore con il saluto delle autorità per chiudersi domani sera.

 «Quando l’anno scorso annunciammo il tema - ha detto il governatore Claudio Martini (nella foto) - mai avremmo pensato che sarebbe stato di così bruciante attualità».

 Storici, scienziati, antropologi, genetisti, politici, uomini di cultura e di religione cercheranno di spiegare cos’è il razzismo, come nasce e perché non muore; analizzeranno i processi del Novecento, “secolo diviso”, e cercheranno di individuare gli scenari futuri dei flussi migratori. Si parlerà molto di rom, naturalmente (ci saranno anche i vicepresidenti dell’Opera nomadi), ma anche di scuola, religione e mezzi di comunicazione. Tra le presenze annunciate quelle del premio Nobel Dario Fo, del leader del Pd Walter Veltroni, e del cardinale di Firenze, Silvano Piovanelli che domani alle 12,30 dialogheranno tra loro sul tema “Politica, fede e ragione contro ogni razzismo”.

 Stamattina alle 11,30 invece Yolanda Pulecio de Betancourt, madre di Ingrid - che sarà presente in collegamento video - parteciperà al dibattito coordinato dal direttore del Tg3 Antonio Di Bella, a cui interverrà anche la vicepresidente del Senato Emma Bonino. Alle 13 “Lo sapevamo anche noi”, conversazione con lo scrittore Erri De Luca. Nel pomeriggio spazio alle tavole rotonde, e a conclusione il video di Barack Obama.

 La sera a Pisa, in piazza Gambacorti è di scena lo spettacolo con il cabaret yiddish di Moni Ovadia - alle 21,45 - seguito da uno spettacolo di danza.

 Domani si riprende alle 10 parlando del razzismo contemporaneo attraverso i videoclip di YouTube. Fra i tanti appuntamenti un viaggio nei lavori di Oliviero Toscani, commentati dal fotografo. Si chiude con la seduta straordinaria e solenne della Giunta regionale per l’approvazione di una direttiva per una scuola antirazzista.


1° maggio al corteo del Mayday Parade a Milano

 Ieri, 1° maggio, con Franca e Dario eravamo al corteo del Mayday Parade a Milano, insieme ai precari, ai migranti, e ai ragazzi dei centri sociali, accolti da tanta gente colorata festosa e danzante. Abbiamo assistito alle consuete calde manifestazioni di affetto e di stima che sempre accolgono la loro partecipazione agli eventi di questo genere. Musica e canti di tanti paesi, carri tematici con le effigi di San Precario e San Migrante. C'era il carro delle precarie vestite da sposa (con chiara allusione alla soluzione di Berlusconi per risolvere il problema con un matrimonio di interesse), c'era quello dei migranti, quello sulle morti bianche, tutti con cartelli dove si rivendicavano i diritti al lavoro, alla sicurezza e a un trattamento dignitoso.
Sul cartello più ironico si leggeva "Migranti, non ci lasciate soli con gli italiani "!
Veniva distribuito un volantino altrettanto ironico dove si chiedeva con chi si ritenesse di avere più cose in comune, con Mohammed, operaio metalmeccanico precario, affitto esagerato, reddito insufficiente e improbabili prospettive di pensione, o con Montezemolo, Presidente di Confindustria, proprietario di grandi aziende, ville, palazzi, terreni e rendite per migliaia di anni.
Eravamo in tanti, 50.000, tanti che contano poco, tanti "invisibili" che non hanno i media dalla loro parte, tanti che portavano istanze scomode al sistema dei partiti e delle holding, fastidiosi per gli smaniosi di profitto e di potere che oggi hanno in mano ben salde le redini del paese.
Se è vero che le manifestazioni, da sole, non risolvono i problemi, è pure vero che sono importanti momenti di incontro di volontà collettive che si esprimono con la partecipazione e rappresentano l'espressione di impulsi sociali in modo, per molti versi, ritualizzato e liberatorio.
Anche se di sicuro per quanto riguarda la precarietà, le morti bianche e le migrazioni, non ci saranno, a breve, risposte istituzionali alle richieste di una maggiore sicurezza - che, è bene sottolinearlo, non vuol dire solo ordine pubblico - questi respiri di piazza sono tuttavia il segno di non aver ceduto alla rassegnazione per l'incertezza in cui siamo stati trascinati da governanti sciagurati e indegni di guidare il paese.
Gessica e gargantua


Premio “Alessandro Tassoni” 3* edizione, Modena 2007, Honoris causa a FRANCA RAME

 
 

 

Franca Rame interpreta Medea all'auditorium di Modena

 

 

Motivazione 

 

La Giuria del Premio “Alessandro Tassoni” è lieta e onorata di conferire il riconoscimento honoris causa  a Franca Rame, che ormai da decenni, e con una carica sempre rinnovata di intelligente coerenza, illustra il teatro italiano sia come attrice che come autrice.

Inoltre, per la sua storia personale, fatta di continua crescita nella ricerca espressiva e nel bisogno di una orgogliosa autonomia nel quadro della scena italiana dei suoi anni, ben rappresentando il processo evolutivo che le donne italiane hanno avuto dalla seconda guerra mondiale ad oggi, assume un’identità corale e costituisce un simbolo per molte di loro.
Figlia d’arte (appartiene ad una famiglia da tre secoli legata al teatro), Franca Rame ha iniziato la sua attività da giovanissima (aveva solo 8 giorni ed era già fra le braccia della madre nel ruolo della figlia di Genoveffa di Brabante).
Dopo gli esordi nella compagnia di provincia diretta dal padre, e le esperienze nella rivista e nel cinema, si dedica totalmente, con qualche parentesi televisiva,al teatro. E’ alla base della Compagnia Dario Fo-Franca Rame, di Nuova Scena (al cui periodo è legato lo straordinario Mistero buffo), del Collettivo la Comune.
Molteplici, nel sodalizio umano e artistico con Dario Fo, i suoi ruoli: è  insostituibile collaboratrice, ispiratrice, amministratrice, addetto stampa, editor esigente, sapiente ed istintivo, infine,  con Parliamo di donne che confluisce in Tutta casa letto e chiesa (1977), a pieno titolo, co-autrice e forte, singolare interprete.
Con le sue pièces dal graffiante stile grottesco, mette in scena una gamma diversificata di tipologie di donne alle prese con la quotidianità, per denunciarne lo sfruttamento, le forme di manipolazione psichica, e incitarle alla piena rivendicazione dei loro diritti. Fedele ad un teatro che è promotore di consapevolezza sociale e politica, non esita a servirsi delle proprie esperienze personali, anche le più dolorose, (come nel caso del testo Lo stupro), per dare voce collettiva a chi l’ha persa. Questo era già lo spirito di Soccorso rosso, il movimento da lei fondato nel 1970, in difesa dei detenuti politici, e non.
Nella motivazione del Premio Nobel per la letteratura assegnato nel 1997 a Dario Fo si legge: “A Dario Fo, perché, insieme a Franca Rame, attrice e scrittrice, nella tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere e restituisce la dignità agli oppressi”: operazione che non smette certo di fare dacché nel 2006 viene eletta Senatrice. Per lei cambia solo il terreno di ricerca e di lotta.
Così la figura istituzionale si salda a quella della grande protagonista del teatro contemporaneo, in una dimensione la cui poliedricità corale resta inalterata.

A questa straordinaria coscienza di cittadina e di interprete di una scena non convenzionale e non digestiva, ma sempre capace di misurarsi con la tragedia e l’idiozia del nostro tempo, la Giuria del Premio “Alessandro Tassoni” rende l’omaggio della sua ammirazione e della sua riconoscenza, che è la stessa di molti, moltissimi italiani.

La Gazzetta di Modena parla della premiazione


Piedigrotta: nella grotta a mani e piedi - di Mimmo Grasso

Prima di leggere questo interessante articolo, per i digiuni di tradizioni popolari partenopee, ecco un accenno storico da Wikipedia:

 

Piedigrotta è una zona della città di Napoli, nel quartiere Chiaia, situata fra via Francesco Caracciolo e la stazione ferroviaria di Mergellina.

Deve il suo nome ad una galleria scavata nella collina di Posillipo: la "Grotta di Pozzuoli"( detta anche di Virgilio, o, appunto, di Posillipo). In tale grotta, in epoca antica, venivano officiati riti sacri in onore di Cibele e di Partenope intorno all'equinozio di autunno. In seguito si aggiunse anche la celebrazione in memoria del poeta Virgilio, sepolto nelle vicinanze. Infine, dal XIV secolo tali riti furono sostituiti da una festa in onore della Madonna di Piedigrotta.

La festa visse il suo massimo splendore fra la fine del 1800 e la seconda metà del 1900Festival della canzone napoletana. Fu soppressa negli anni Sessanta del XX secolo per motivi di ordine pubblico.
La festa di Piedigrotta era solitamente chiusa dai
quando divenne vetrina della musica partenopea in concomitanza col fuochi a mare, uno spettacolo pirotecnico con fuochi d'artificio sparati da barche ormeggiate nel golfo di Napoli.

 

Ed ora, l'articolo di Mimmo!

 

Il presidente Napolitano ha recentemente esortato i partenopei a ritrovare l’orgoglio di Napoli. La circostanza, una specie di  “sincronicità” iunghiana , vuole che quest’anno coincidano il trentennale della morte di Francesco  Cangiullo e, dopo decenni di dimenticatoio,  un nuovo  start di Piedigrotta, la festa che è Napoli in festa, quando Napoli porta in spalla se stessa, exultante arcaica fuyente, ripetendo la danza delle gru che Teseo fondò a Delo e che i tammorrari eseguono  tradizionalmente -ma senza averne più memoria. La danza delle gru (uccello migratore, inciso sullo scudo di Teseo e simbolo degli astronomi egizi) è la danza dei pianeti e si sa che vari elementi astrali caratterizzano Piedigrotta , che in questa circostanza-coincidenza si eleva a Costellazione. “Delo”, altresì,  deriva da  “deloo”, “appaio”, “mi manifesto”. Manifestare è la “festa dei Mani”, divinità infere.. Delo era altresì  isola sacra ad Apollo, dio della luce-sole, l’a-pollon, il non-molti (unico), come solare è il Mitra della cripta neapolitana. Con i   paramenti ritraici  è possibile, analogicamente, cucire il costume di Pulcinella  la cui maschera da corax (corvo)   rappresenta, come per i pitagorici, l’ acusmatico grezzo, l’ascoltatore da sgrossare, cioè il primo livello della gerarchia mitraica (erano previsti sette gradi che per i più curiosi elenchiamo: corvo,sposo, soldato, leone, persiano, messaggero del sole, padre).

Come si verifica vivendo, non è possibile scindere l’elemento apollineo ( la conoscenza) da quello dionisiaco (l’ “inconoscenza”, neologismo che definirei come stato originario del non-ancora-già conoscibile). Ambedue i temperamenti si intrecciano serpentini e “festosi”,  con torsioni e riti liberatori, vale a dire con comportamenti espressivi “originari”  codificati ma informali rispetto a quelli quotidiani. “Festa”: dal  sanscrito ”Vastya” (casa, abitazione), da cui il greco “Estiào” (banchetto, accolgo ospitalmente) da cui ancora “Fèstia” (focolare della casa). E’ implicito dunque in Piedigrotta un tornare ai lari. Le luminarie e i giochi pirotecnici (artificiali, cioè fatti ad arte, con un’intenzione)   hanno questa funzione di  richiamo.  “Piedigrotta” reca inoltre in sé il movimento nell’oscurità:  la danza (piedi) e la grotta , proprio quella del viaggio iniziatico  di Benino sul presepe,  col suo sonno e il suo “Oh!” di meraviglia davanti all’ antro del parto, dimora del “piccolo uomo nuovo”, homunculus aureo,solare. I carri di quest’anno  sono allegoria di un gran tour verso le proprie origini future. Osservati in prospettiva,  tutti i personaggi  che partecipano “appaiono” pastori di un presepe infero, come infero (sorpresa ironica e sghignazzante) è il pulcinella (Pulcinella)  che esce dall’Uovo (uovo); infera è la fiamma del Vesuvio,  simile a quelle in cui si agitano le Anime Sante del Purgatorio in rilievo nelle edicole dei vicoli. Di più: è lei stessa, la fiamma, un’anima santa del purgatorio che cerca arrifrisco.

Napoli è una città per iniziati. Tre icone mi chiedono di entrare in gioco, esse stesse allegorie delle strutture inconoscibili e profonde della città e di Piedigrotta: la prima è conservata alla cappella universitaria e rappresenta una Maria popolare e pacchiana  nel gesto di  allattare. La seconda è a San Pietro in Vincoli, dai cui orti fu creata piazza Garibaldi, e consiste in un bassorilievo raffigurante Maria in trono che allatta i dannati del purgatorio (ecco una  variante della Madonna di Piedigrotta).

 

La terza è la fontana Spinacorona, nei pressi dell’Università Centrale, straordinariamente carica di significati: è Partenope, la donna-uccello ( e l’uccello  ascende al cielo)  perché è noto che le sirene, prima di essere raffigurate come donne-pesce (bilogica della percezione) lo erano come donne-uccello (p.es. le arpie). La bilogica della mente anfibia tra sogno e ragione e le reciproche contaminazioni di ambedue i metodi convergono in Piedigrotta e nel capovolgimento (o dilatazione)  di senso che essa produce:  dall’uovo nasce il pulcino, ovvio. Ma,  superlativamente,  piedi-grottescamente, dall’ Uovo nasce il Pulcino. Piedigrotta è danza, riguarda i piedi e le mani alzate al cielo a scuotere cimbali, modulando e imitando i terremoti. Sto pensando a Chinua Achebe, ad “Attento fratello in soul” , testamento del patrimonio “pedestre” della danza yoruba.

Durante la festa i riferimenti a Virgilio e alla tradizione medievale popolare che lo  utilizza sono impliciti  anche se mai apertamente dichiarati, quasi tabù.; viene regolarmente obliquato, gobbuto come Pulcinella, Giacomo Leopardi, ospite senza fissa dimora del sito antistante la Cripta.. Eh già, perché Giacomo appare ai napoletani abbastanza seccia e scassambrelle. Il suo rapporto con Napoli fu sempre (ma aveva ragione) polemico e fustigante.  Se lo evochiamo corriamo il rischio che componga col linguaggio d’oggi (in queste cose era  bravo, c’è poco da discutere)  una satira con versi come quelli de “I Nuovi Credenti” (1835), versi che, se non conoscessimo il titolo e l’occasione per la quale furono scritti,  andrebbero benissimo per Piedigrotta:”…S’arma Napoli a gara alla difesa/ De’ maccheroni suoi: ch’ai maccheroni/ Anteposto il morir, troppo le pesa…Che dirò delle triglie e delle alici?/ Qual puoi bramar felicità più vera/ Che far d’ostriche scempio infra gli amici?...” -salvo poi, il buon Giacomo, tornare tardissimo a casa e pretendere dall’assonnata servitù di  Ranieri na scarafea ‘e maccarune. Non elenchiamo -chè il popolo di allora,  sollazzato solo a Piedigrotta e che sta controllando ciò che scrivo, si solleverebbe e mi farebbe una mazziata-  la lista dei 49 piatti per il cuoco Pasquale Ignarra riservati a Giacomo. Quello che dirò adesso c’entra poco con Piedigrotta ma è un atto dovuto a questo straordinario giovane e, poi, si tratta comunque di entrare in una grotta, un’officina linguistica e storica e simbolica.  Volete sapere perché l’autore de L’infinito (il testo di poesia più bello e complesso mai concepito) fu un rivoluzionario? Prendete una qualsiasi antologia scolastica e leggete quello che scrivevano i suoi contemporanei: Odi e Mongolfiere, Inni Sacri, Grazie e Luigie Pallavicine che, stupidotte, si ostinano a cadere da cavallo (  significativamente Foscolo è l’unico  poeta  dell’epoca  mai citato da Leopardi). Poi arrivate a Giacomo  e che ci trovate? Guaglioni, pacchianelle, passerotti, fabbri, carrettieri, gente puzzolente, analfabeta, che non aveva mai avuto diritto di cittadinanza letteraria in anni in cui l’italiano era come il latino. Insomma, tutti sparavano alto, classicheggiavano, scrivevano (300 copie di un libro erano un successo internazionale) per i potenti. Giacomo no, guarda alla terra, ai poveri, al (diciamolo) popolo lavoratore. Come a Mozart, gli toccò una “morte popolare” nella mattanza del colera. Va bene. Ma come fa il Giacomino quest’operazione?  Nella forma più classica possibile, con l’idillio. In gamba, no?  Leopardi appariva alla cultura napoletana  ultramoderno , saccente,  bizzarro e sprovveduto ( il poveretto ebbe un “pacco”  da un tipografo napoletano e dovette firmare un bel po’ di cambiali). Non ho elementi per dirvi come era visto Giacomo dal popolo il cui atteggiamento nei confronti di Virgilio è diverso perché  è ‘o nuosto, ha fatto ‘o bbene, certamente giocava al lotto,  non è un razionalista come Leopardi, che si capisce solo lui,  ma un mago, uno che se vuole può, un sanzano  tra il mondo di qui e quello di lì. Sennò, scusate, perché anche  Dante lo scelse come intermediario? E, poi, era un femminiello, dunque porta fortuna, era come i coribanti, sacerdoti della  Grande Madre, che si tagliavano gli attributi. Ancora oggi alla candelora i femminielli organizzano gite di gruppo a Montevergine (monte di Virgilio, complesso montuoso del Partenio -ed è appena il caso di ricordare che “verginella”, come era chiamato affettuosamente Virgilio, è in lingua greca “Parthenias”, Partenope).

Anche quest’anno, comunque, Virgilio, sepolto, secondo un’antichissima tradizione, a Piedigrotta, in un luogo di culto  originariamente riservato a Cibele,  c’è senza esserci, come il trucco (il mago, appunto) suggerito sullo stesso carro dove sono stati collocati l’ Uovo e Castel dell’Ovo. Ohibò: e se Pulcinella  stesse sugli spalti del suo guscio a difendere il vuoto? Se, paguro, si fosse messo lì per occupare il vuoto del cosmo?

L’occasione di Piedigrotta 2007  certamente ha richiesto un colossale sforzo dai parte delle istituzioni e rappresenta  un investimento molto serio sul futuro e sull’identità partenopea, vale a dire  sui comportamenti sociali. E’ da eventi come questi che una comunità può riappropriarsi del senso del proprio essere nel mondo e, di conseguenza, modulare i propri comportamenti secondo gli standard di dignità e di etica che le assegna il ruolo storico.

Sia ribadito che, dopo Atene, Napoli è  stata la seconda città dell’occidente a promuovere civiltà e saperi raggiungendo vette insuperate nella storia umana col “nostro”  Federico II.

La cripta neapolitana è il luogo comune di Napoli, quello che farebbe la felicità di  un archeologo dei simboli. Vi confido di aver compreso, io che mi presumo razionalista e scientista, l’aura misteriosa  della cripta quando il 21 dicembre 2006, solstizio d’inverno, ci sono stato con alcune classi della scuola elementare Cimarosa, di Posillipo. Avevamo fatto un laboratorio di linguaggi e, poiché - sono l’ unico a farlo-  mi reco ogni anno in visita da Virgilio e Leopardi portando con me un ramo di quercia che vado apposta a prelevare a Cuma, ho invitato i bambini. Cos’è successo di tanto misterioso? Che i bambini si sono seduti spontaneamente ai piedi della colonna che ricorda Leopardi e, tutti insieme, d’istinto, hanno recitato a cantilena L’Infinito. Ho avuto l’impressione che Giacomo li reggesse in braccio mentre un improvviso mulinello di vento arrollava le foglie nell’angolo dov’è un bassorilievo della fenice. Mah. Misture e Misteri di Napoli. Con loro ho ripetuto l’ arcaico rito del sale e del fuoco e per  loro mi sono trasformato in aruspice aprendo a caso, per ognuno, l’Eneide e leggendone due versi, come si faceva duemila anni fa. Ecco: forse è questa la Piedigrotta silenziosa e taciuta, quella tabù.

Penso che è molto  importante per l’orgoglio di Napoli che, grazie a Geppino Cilento e Vittorio Avella, la città si riappropri dell’intelligenza di un suo illustre figlio, Cangiullo, autore di molti lavori futuristi sulla Piedigrotta (e anche questo è un fatto misterioso, una

“sincronicità” pilotata da qualche cabalista o  futurista   -qui nel senso  “che prevede il futuro”). E’ significativo che Cangiullo chiuda  la parata dei carri e nel contempo si ponga, cangiullando, come mossiere  di un giro al contrario intorno ad essi, quasi cocchiere dei due splendidi (furenti)  cavalli che l’abilità di Claudio Cuomo fa impennare sulle onde di Poseidone con nitriti di bronzo e sotto il cui zoccolo la terra trema.

“Settembre” è già locuzione che trema. Il  settesettembre chi si troverà a piazza Municipio ascolterà nitrato d’argento nelle gole lunari e scalpitare con scintille d’ossidiana i cavalli di bronzo di palazzo reale: vogliono andare anche loro a Mergellina trascinandosi dietro l’intera Biblioteca Nazionale e le voci “stucchiate” del San Carlo.

In questi due cavalli mi “appaiono”  i “polyfrastoi ippoi” di Parmenide, quelli che conducono il filosofo alla “verità” contro l’opinione. Ma sono cavalli di cartapesta e dunque chissà come sarà la vera “doxa”, il vero giudizio sulle cose.  Mentre penso questo vedo  che le poche decine di versi del maestro di Elea si colorano di luci strane, polyfrastiche, quasi che, sui carri,  Opinione e Verità si scambino i ruoli. Da qualche parte i cavalli mi conducono a una citazione che mi ronza nella mente:”… e il sorgere rosso quando la prima volta si deve mostrare la fronte ai cavalli del sole”. Sì, è lui, Giordano Bruno, e la citazione è dall’ Enigma e Paradigma che chiude il  De Umbris Idearum.. I carri dei maestri cartapestai nolani come Umbrarum  Ideae? Perché no? Anzi, certamente sì perché i realia sono simulacri di altre realtà. (finzioni, in fondo, e finzioni di finzioni perché l’essere ,se non “fingit” , entra in contatto col nulla , si sente meno di nulla e non confessa a se stesso che il vero giudizio è una finzione sia di giudizio che di verità, cartapesta  e luminarie da bambini che” finguntque futura” le proprie ombre.

Nel mese di maggio si è tenuto sul Vesuvio il Festival della Patafisica, ovvero la scienza delle soluzioni immaginarie. Già il sito, Il Fiume di Pietra,  era un carro allegorico naturale. A momenti ho temuto che la montagna avesse le ruote.

Ritengo che non ci sia manifestazione più patafisica di Piedigrotta e che Napoli può individuare il suo Dottor Faustroll in Raimondo di Sangro, inventore –tra l’altro- di un palco pieghevole e di una carrozza marittima. Chissà se lo hanno invitato alla conferenza stampa.

Si sa, inoltre, che in materia artistica i materiali sono elemento non secondario della comunicazione. Nel caso dei carri, apparati colossali,  machinae, appare il gioco, trionfante, della facciata di fuori e della verità di dentro; cioè si nasconde, messa in scena corale, una questione ontologica dell’essere e delle sue relazioni: le macchine sono così grandi, artificiosate, eppure così dense di leggerezza e destinate, già nascenti, al deperimento.

Il futuro a Napoli si compie prima che avvenga. E’ il senso del “memento” , pietra angolare in tutti i bivi. Forse Napoli ha  tante chiese perché uno possa, in qualsiasi momento e in qualsiasi posto della città si trovi, trovare accoglienza e salvazione dagli sbirri dell’essere, una pausa all’angoscia. All’angoscia, dico, non alla paura, perchè Napoli non ha paura. E’ la città più tollerante del pianeta. Ma Napoli si autocrocifigge per angoscia. Anche urbanisticamente è angosciata. Perché? Si ha paura di qualcosa che comunque si conosce, di qualcosa la cui esperienza è ripetibile, come l’essere azzannato dal molosso che adesso ringhia ai miei piedi, in una grotta che abbiamo voluto attraversare.  L’angoscia riguarda ciò che non si conosce e la cui esperienza non può essere ripetuta. La morte è angoscia; l’essere deperibili prima ancora del concepimento in  carne e ossa,  creati di  cartapesta, è l’ angoscia.

In tal senso il movimento “Arte nella natura” , che colloca i propri manufatti di materiali naturali in ambienti fisici all’aperto perché  durino  quanto gli elementi di cui sono fatti, non ha proprio nulla da insegnare a Napoli. Semmai può imparare qualcosa.

Ho visto i modellini dei carri al laboratorio di Vittorio Avella, invitato dal maestro tipografo Carmine Cervone che, ispirato dalle locandine di Cangiullo, ha composto (siamo in pieno ambiente alchemico: acidi, fibre, tinture, inchiostri, morsure, piombo).un unicum dell’arte tipografica, denso di “tipi”.  E’ stato un privilegio vedere i carri in divenire al Vico Freddo a Rua Catalana  mentre il torcoliere stampava  ombre a tiratura limitata. In quella strada anche le mura mostrano le cicatrici; il modo d’essere  del popolo (andateci, verificate) non è

cambiato rispetto al periodo in cui Boccaccio vi ambientò, nel Malpertugio, la storia di Andreuccio. Ed eccoli lì i prototipi: carri-immagini bonsai, origami dei sogni del Golem.

Immaginiamo di approdare nel golfo partenopeo durante la sfilata (stavo per scrivere “processione”): si ha l’impressione che ebbero gli antichi navigatori quando videro queste sponde come “terra dei giganti”. I carri, in fila,  rappresentano  l’intera linea di costa e chiunque può immaginare di sostituire gli elementi reali con i propri omologhi di cartapesta, “prelevare” i dati che vede sulla linea costiera  e vederseli restituiti, ingigantiti o rimpiccioliti, dalla propria immaginazione che, come si sa, usa forbici e colla e colori come i cartapestai. E’ il gioco che Carrol fa fare ad Alice. Eccolo lì il golfo che si esprime con una mirifica giostra-carillon le cui note e canzoni sono strumenti dal nome infernale di dèmoni: Scetavaiasse, Putipù, Triccabballacche, cortigiani di  Rumore, incoronato re per  una settimana,  allineati su quattro postazioni che, qui, non rinviano tanto ai quattro elementi quanto a quattro punti cardinali e alla possibilità di mischiare le carte. Tespi, il mazziere, raccatta per il loro utilizzo strati cultissimi e populareschi. Fate così: guardate la teoria di carri mentre muggiscono in paranza. Individuate i personaggi e i simboli raffigurati: I Cavalli,Le Onde, Pulcinella & l’ Uovo, Castel dell’Ovo, La Sirena, I Guarracini, L’Arcimboldo Musico, il Taluorno Tammorraro, Il cappello di Totò, il Papillon di Totò, L’Arcobaleno, Il Vesuvio, La Fiamma, Il Girasole, La Cripta,  Viviani, La Cuccagnata, Cangiullo.

Ognuno può  creare così la propria personale  serie  dei “Tarocchi di Piedigrotta”. Ognuno può, con questi “Carri dei destini incrociati”, inventarsi ennestorie.

Ci ho giocato per due ore. Mi è venuto fuori qualcosa tipo la favola di Cappuccetto Rosso riscritta da Queneau. Ci ho anche elaborato un quadrato latino, alla maniera di Arnaldo Daniello. Potrei, per esagerare, scrivere coi piedi, grottescamente, una retrogradatio cruciata ma ora devo finire: Carmine Cervone, mi ha assegnato tutto lo spazio che voglio ma non voglio tutto lo spazio del libello che Alberto D’Angelo editerà. Mi auguro, comunque, che questi carri facciano la loro bella figura anche al Carnevale di Rio.

Finisco adesso con un testo già in bozza, destinato alle incisioni di Manuel Cargaleiro, portoghese  molto vicino ai colori di Piedigrotta. In questo testo, credo, ci sono molte delle cose che ho registrato dai soliloqui della mia memoria. Come accade agli smemorati, lei parla da sola su una panchina a Mergellina e tiene compagnia ai suonatori ciechi di Viviani. Lo stravizio  filologico mi impone, lettore, di precisare che “pupazzi” ha a che vedere con “pupa”, ovvero “crisalide”, e rappresenta -voilà la rêve- la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro. A Piedigrotta, come sai, il cielo si addensa di nembi d’anime col piombo ai piedi e che si buttano dove càpita per liberarsi. Anche dentro di te. Perciò, porta l’ombrello o riparati sotto l’arcobaleno o la volta di una luminaria.

Vieni, memoria, ora ti riaccompagno per mano a casa”.

Si alza, acquiescente e, quasi, devota.  Bisbiglia di un tale Raffaele Raimondo che, se ho capito bene, era di Torre del Greco, un maestro corallaro che creò luminarie d’incanto a Piazza Vittoria. Dice (ma lo dice a se stessa) che “il Castel dell’Ovo si incendia perché…“.

- “Già: perché si incendia il Castello? Puoi dirlo anche a me?”.  

- “Perché il capitano della fortezza, il conte del Castrillo, voleva dimostrare che il castello era prendibile dai francesi via mare e organizzò una prova generale d’assalto con fuochi artificiali della premiata ditta Giuseppe Dell’Orca, torrese”.

Ah, ecco perché. E’  una storia vera e dunque  patafisica anche questa.Comunque, memoria, non me la dai a bere. Ci sono troppe coincidenze: un capitano della fortezza che si chiama Castrillo (in spagnolo: castello fortificato), una ditta di fuochi d’artificio che viene da Torre e che si chiama Orca…Mah. Comunque verificherò, non si sa mai. Ecco il testo per Manuel:

 

è il solstizio d’estate. lo specchio

è un po’ opaco di polvere.

a somma vesuviana  questa notte

accendono lucerne con l’olio di quattro anni

e si suona il tamburo fuori mura.

sistemano pupazzi sulle porte di casa.

 

a piedigrotta mitra illumina il taciuto di maria.

 

è il solstizio d’estate. il sole cambia

posizione sull’asse e dimentica sempre

negli specchi la polvere

 


 

                                                                                  Mimmo Grasso

 


 

 


 

ecco un secondo articolo arrivato in redazione:

 

‘A festa nasce e more ccà.

Le discussioni sull’opportunità o meno di far risorgere da ceneri cimiteriali la fenice Piedigrotta significano che fare la piedigrotta  su Piedigrotta, il che è già un successo.Se non il linguaggio o le argomentazioni,  la mimica della dialettica è in fondo  uguale in tutte le “feste”, dalla sagra della cozza al  Palio di Siena. So poco della macchina organizzativa della festa e la immagino difficoltosissima, con qualcuno che certamente rimane da solo ad affrontare impedimenti   mentre  i “responsabili del procedimento”  cavillano o  si defilano o colgono l’occasione per qualche rivendicazione. Molti si saranno affacciati  per   “acchiappare” qualcosa. Ma questo è “normale” (prevedibile) e va gestito, sia alla sagra della cozza che al Palio di Siena. In termini economici non ho mai condiviso l’organizzazione di eventi in base al   “costa troppo/troppo poco” ma in base al  ritorno dell’investimento, cioè quanto danaro può girare  nel flusso complessivo grazie alla siringa iniziale  di capitale investito. Nel caso di Piedigrotta c’è un “plus”  non quantificabile in termini di costi/benefici

se non nel tempo, e a patto che la festa non sia episodica, e che consiste nel recupero di un’etica e dunque di comportamenti meno devastanti..

”Roberto De Simone , grande anche quando minimizza, ha indicato dalle colonne de “Il Mattino”  aspetti di Piedigrotta 2007  utilizzando come  incipit versi di Leopardi che anch’io  ho usato scrivendo di Piedigrotta per questo blog  e per l’editore de Ilfilodipartenope. Che significa ciò? Che c’è un atteggiamento tra satirico e sarcastico in entrambi, che sentiamo (laggiù , tra le crepe del dichiarato e del presunto)  questa festa come una parodia di quella originaria. Siamo, cioè, in dissonanza perché vorremmo l’ “origine”.  Ma, in fondo,  a Piedigrotta non ci si maschera, non si fa la parodia? E se quella attuale è parodia di una parodia, è una metaparodia. Il massimo. Giacomo De Simone sviluppa  gli elementi “grotteschi” (appunto)   di Piedigrotta 2007  immaginando, in maniera patafisica (e c’è chi ha già fatto una performance  del genere),  una parata di carri della nettezza urbana con banda e vigili in testa. Nella sua sequela “funesta” c’è in sottofondo   un Mozart solitario ed  inedito che raccoglie da terra le note del suo cembalo. Se Piedigrotta è, come dicono,  la mimesi esorcizzante del vissuto, Roberto ha ragione. Ma è anche vero che  per  organizzare una festa  come lui  la propone occorrerebbe che il popolo innanzitutto, coi suoi mast’ ‘e festa (maestri della festa)  se ce ne sono ancora, si attivasse, che elaborasse, da solo, la faccenda altrimenti anche la danza macabra di stampo medievale o la “grottitudine” alla Rabelais sarebbe una cosa imposta e proposta dall’alto e, paradossalmente, l’obiettivo contro il quale si mira  si trasformerebbe addirittura in qualcosa di positivo grazie alla sua rappresentazione, riconoscibilità e, in fondo,per l’ accettazione-rassegnazione che ne deriverebbe. So bene che nelle mani di Roberto  Piedigrotta  diventerebbe un’opera di valore elevatissimo. Ma, appunto, un’opera. E anche questo è paradossale perché il capocoreuta organizzerebbe una regìa, dunque un artificio,   e il popolo, quello di oggi,  al quale apparteneva la festa (sto usando il tempo passato, ma in itinere) ne resterebbe comunque escluso, resterebbe  merce, bue,  come  negli anni del fascismo o laurini (e di oggi).  Né è possibile evitare passerelle o l’ intercettare consensi elettorali. Ma già nell’antichità funzionava così –o no? Noi saremo redenti solo quando guarderemo il colosseo non più come uno stemma italico ma come un cesso nel quale la gente si ammazzava per tirare a campare. So anche che  molte  energie creative   napolegne non sono state coinvolte (clientela spicciola? Associazioni senza scopo di lucro  con obiettivi  elettorali? L’occasione per togliersi, da parte di molti,  “’e vriccille a ‘ int’ ‘e scarpe” ? Populismo?) ma  è saggio rinviare le discussioni a consuntivo, dopo aver verificato la risposta   della città.

Marino Niola, sempre su “Il Mattino” e in pari data  osserva le metamorfosi delle feste e delle tradizioni nei contesti industriali e nei successivi, suggerendo analogie con altri eventi meno nobilmente storici di Piedigrotta (Carnevale di Venezia, Notte della Taranta, ecc.)  posizionando la festa napoletana   in modo “giusto”, e cioè mutevole per la  dinamica delle relazioni  (che è poi il possibile cambiamento di senso e significato di ogni segno).

Ma non è, signori, che, per esempio, in  ossequio all’originarietà della tradizione della taranta dobbiamo allevare latrodecti tredecim guttati o far macerare tra gli stenti il popolo così ci dà una dimostrazione originale di archi isterici?

Leggendo De Simone e Niola mi sono trovato stretto in un’ellisse, tra due fuochi equidistanti dal centro, in una situazione “indecidibile”  perché  le ragioni di entrambi sono validissime. Ma il popolo, destinatario e futuro vecchio proprietario della festa,  che ne pensa?

Ho girovagato, ieri notte,  per Mergellina fermandomi ai chioschetti dei tarallari e  ho improvvisato qualche intervista  (“…e allora? ‘A facimmo o no ‘sta   Piere-rotta?”) e -da buon napoletano-  ho coinvolto nella discussione anche i passanti  organizzando un teatrino come quelli che si vedono spesso per le strade. La maggioranza degli “intervistati” era giovane e  conosceva  Piedigrotta solo perché il nonno gliene ha parlato. Alla fine dell’inchiesta,  mettendo in macchina 34 taralli e 9 birre, guardavo nello specchietto retrovisore le  luci dei chioschetti e  gli alberi di maestra delle barche illuminati come fossero  un riflesso della festa. Anche i miei interlocutori muovevano gli occhi verso l’alto, dentro un arcano specchietto retrovisore, come a intercettare  qualcosa che la memoria non riusciva a ricostruire, pezzetti di vetro da mettere insieme. Ho fatto loro vedere, archiviati  nella fotocamera del mio telefonino,  i modellini dei carri di quest’anno,  fatti dai maestri cartapestai di Nola. Li abbiamo discussi. Erano felici. Ma cosa cercavano coi loro occhi? Credo  la voglia di identità, di ritrovare  orgoglio e l’orgoglio nasce se c’è il consenso sociale, la stima degli altri (siamo in fondo  animali culturali),  se qualcuno ci dice “tu sei importante” o te lo fa capire, se ha delle attese verso di noi. E se c’è orgoglio ci sarà indignazione e se c’è indignazione c’è un sistema di valori e comportamenti, un’etica.

Ho fischiettato in macchina la bellissima melodia che, su testo di Raffaele Viviani,  Eugenio Bennato ha composto per Piedigrotta 2007,  A festa nasce e more ccà. Ovviamente non vedo l’ora di salire su un  carrozzone e caciarare con le paranze.

E io, in fondo, che voglio?  Che, calata dall’alto o nata dai bassi, Piedigrotta diventi per Napoli ciò che -infine- è diventata piazza del Plebiscito.


Mineurs: minatori e minori - di Mimmo Grasso

Il festival del cinema per ragazzi di Giffoni (Salerno)  è stato inaugurato quest’anno da  Mineurs di Fulvio Wetzl e  Valeria Vaiano, che ne è anche  protagonista insieme con un Franco Nero che con  sguardi  azzurrivi racconta la disperazone  del capofamiglia  in miniera  e con un meditato  Ulderico Pesce nella parte del maestro. Molti i  lucani reclutati sul posto. Il film è corale sia  per il racconto (l’attesa e un  viaggio ineluttabili, la vita degli emigrati italiani  nelle  miniere belghe) che   per l’ allestimento e le riprese (la troupe ha contato in vari momenti  oltre 500 persone) sia, infine, per la produzione: 17 istituzioni, dalla Basilicata al Limburgo. Le riprese sono state effettuate nei luoghi storici, il che connota già come “ritorno” l’azione di Wetzl. Il film è costato quanto quindici minuti  di Harry Potter, anch’esso proiettato a Giffoni. Mineurs è dunque un esempio di come  l’emozione e l’intelligenza rimangano gli unici effetti veramente speciali.Quando  torniamo nei luoghi che ci sono cari  desideriamo riscontrare  i particolari dei nostri ricordi, puntiamo l’indice  (qui, e qui, e qui, e poi questo e questo e questo) per avere conferma che noi siamo questo e qui, “questo-qui”,  che nulla è immutato e che dunque quel nulla è un valore o , almeno,  riconoscibile come non-nulla. Wetzl e Vaiano  hanno fatto dunque precedere la sceneggiatura da puntuali documentazioni sul campo,  anche linguistiche. Splendidi gli spezzoni di Già vola il fiore magro,  film-documentario di Paul Meyer girato nel ’59 (gli anni in cui è ambientato Mineurs) sui lavoratori  italiani  nella regione del  Borinage, quasi  citazione virgolettata, film nel film. Il lavoro di Meyer fu censurato e solo da pochissimi anni è visionabile.   Va inoltre  ricordato che gli autori appartengono entrambi a terre di  emigrazione e dunque  sanno di che stanno parlando: Wetzl è veneto (Padova)   Vaiano è altoirpina, ai confini cioè della Basilicata-Lucania, come Ettore Scola, già autore di un introvabile 8mm. d’esordio ( Fiatnam,  sulle vicende operaie torinesi di un contadino irpino). 

 

Mineurs merita una riflessione: gli eventi sono osservati  dal punto di vista dei ragazzi, i contenuti civili ed etici  dichiarati sono alti .  A Fulvio e Valeria si deve lo stimolo a rileggere alcuni documenti  sull’emigrazione italiana ed è una rilettura che consolida e chiarisce molto le idee su varie questioni di oggi.

Il territorio della partenza, la Lucania,  è  “verticale”  sia per fatti genetici che storici e questa prospettiva si osserva nei luoghi, nei volti, nel modo di esprimersi dei personaggi, discendenti di osci, bretti (“ribelli”, gli attuali calabresi), sanniti, sabelli, etruschi, tarantini, cumani (forse i Cimmeri di Cuma  erano proprio i lucani con le loro armature di bronzo terribile). Ernesto De Martino non indaga una diretta influenza osca nelle pratiche magiche o  del  tarantismo per quanto  Venosa sia da lui spesso citata e il Sud Italia sia stato il suo terreno privilegiato di ricerca.. In quegli anni  non c’erano i documenti di oggi e a  Pistòm (Paestum ,già Poseidonia. Il nome  forse deriva dal  “paizein”, il giocare del tempo ludico o dall’osco “pistò”, focaccia, e, per estensione,   fertile come il melograno e il pane che ‘nferta le mani delle statuette di  Hera) non era stata ancora scavata una tomba che mi piace chiamare dello sciamano, molto meno  scenografica e chiccosa di quella del tuffatore etrusco  ma più intrigante: è un sepolcro semplicissimo, grezzo,  con il particolare che  sotto la lastra di copertura   c’è inciso un volto che evidentemente  rispecchia e ripete, gemellare,  quello del defunto. Si capovolge la struttura del mito di Narciso: è l’immagine che osserva l’originale, già morto  (o no?). Insomma: le altre tombe sono zeppe di oggetti cultuali e rituali, di “paizein”,  mentre in questa c’è solo il volto del de cuius a tenergli compagnia nell’emigrazione all’altro mondo. Interessante, vero? E immaginate, aprendo la tomba, che è con quel volto inciso nella pietra che si  incontrarono, prima che con i resti del mago,  gli occhi degli archeologi e magari qualcuno di loro avrà subito, per quel malocchio,   il morso della sua taranta ancestrale.

Certamente -io le ho viste-  le ombre del mezzogiorno  si  radunano intorno a quel sarcofago  in danze pirriche. Chi avrà avuto la voglia di leggere queste note si chiederà   che c’entra questo con Mineurs. Beh, in fondo sempre di sottosuolo e di ipogei si tratta ed è nel sottosuolo che si trovano gli schemi dei comportamenti, è lì che la radice radicheggia. La Lucania è una terra radicale. Melfi è la città   delle Constitutiones; lì fu sancita da Federico II  l’idea dello stato laico; lì nasce la coscienza civile degli italiani Solo agli  jaculatores obloquentes, i giullari, lo staff federiciano  non diede alcun riconoscimento  (e Dario ha citata la faccenda  nel suo discorso ufficiale al Nobel).

Non  intendo qui fare una recensione al film, una tonsura; lo tradurrò (anche tradurre è un po’ emigrare), trasferirò in parola i fotogrammi  scrivendo  il soggetto di un secondo film  cone o le “immagini a fronte”  di Wetzl, come lui ha fatto  con Mayer. Chi narra, “qui”,   è uno dei giovanissimi Mineurs, Armando, che parla a se stesso in prima persona  come ci succede quando siamo in treno e il viaggio è lungo. Armando ora ha  i capelli bianchi. Lo vediamo che aspetta  al capolinea di partenza della ferrovia interna  calabro-lucana che usa ancora treni a vapore. Il capostazione ha dieci anni ed era un compagno di Armando. Il semaforo marca il rosso.  Il capostazione fa il fischio con le dita. Si accende il verde. Azione:

 

 «Acerenza, Accettura, Muro Lucano, Oppido:  acero, accetta, muro, fortificazione: nomi barriera di un territorio “ostile”.  “Lucania” significa “lupo”  e “bosco”. Da sempre    la fame fa uscire il lupo dal bosco. Fu per la fame che   caricammo sul treno per il Belgio bagagli di aggeggi inservibili. Mia madre infagottò un ferro da stiro pesantissimo, una specie di zavorra

per la sua anima casalinga.  Io portai  il  vestito che mio nonno usava per la festa e passato a mio padre. Non per indossarlo   ma per conservare  l’odore di ceppo. Mio padre, carrettiere, quando cantava accompagnandosi con la frusta  era il dio dei carri. Un ciclope.  La mattina il suo canto cadeva come bucce d’arance nel mio sonno. La sera lo aiutavo a togliere il basto  al cavallo che masticava crusca dal sacchetto di juta ed era tutto mascelle e mantici di froge. Per me è naturale mangiare con la testa abbassata  e col braccio sinistro a semicerchio intorno al piatto, come a proteggerlo. Appoggiata alla stanga, la bella sonagliera custodiva il silenzio come le teche d’argento in chiesa le reliquie dei santi. Misi il vestito in un cassettone nella baracca di lamiera in cui ci accampammo  e quando avemmo dai belgi una casa popolare, tirandolo fuori per riporlo nell’armadio  vidi  che erano spuntate  dalle tasche  rosmarino,  timo, foglie di granoturco.  Questo vestito lo indosso ora,  mentre torno al paese. Il suo velluto ha  fruscii come la scorza della  quercia da sughero. Avevo con me, all’andata,   un po’ di vino aglianico (“ellenico”, ci disse il maestro) che  bevvi col mio compagno Egidio  nel puzzolentissimo  cesso del treno. Io ero abituato ai “cessi a vento”,  che si chiamano così perché stai nascosto in un luogo all’aperto, seduto sulle ginocchia e  col culo al vento. Eppure, vivendo nelle baracche in Belgio, ho  desiderato il cesso del treno perché, almeno, aveva la porta. Né potevo farla  fuori perché mi sarei perduto nella nebbia. Se mi fossi perso realmente per una cacata non avrei potuto  guardare in faccia nessuno per tutta la vita. Neanche quelli dei sassi di Matera hanno  vissuto come noi. Mi abituai a sgombrare la pancia in miniera, spegnendo la luce del casco. Spesso chi  finiva sui miei rifiuti mi declinava i morti.  Le femmine si organizzarono costruendo un cesso tutto per loro con quattro lamiere e  dal quale saliva  un odore fenico   d’intimità femminili e di lisciva per lavare i panni.. Ebbi il sentimento  che io ed Egidio  ci volessimo ubriacare non tanto per dimenticare ma per ricordare e certo per distrarci dall’impulso di piangere  pestando i piedi su una rabbia

disperata, mordendo  le nostre mani non avendo potuto azzannarle  all’uomo nero che ci aveva spinto nel vagone.

 


Anche ora ho una fiasca di ellenico   che non bevo perché ho paura di dimenticare la miniera. I miei piedi hanno un sussulto, un tremore di danza interrotta. Mozzico l’aria, mi scazzico dalla pelle. Mi capitava anche in Belgio soprattutto quando si avvicinava il giorno della festa del patrono. Poi, durante la processione, il tremore scompariva. E’ il vecchio rimorso per una scelta subìta e ancora mi afferra la nevrosi dell’abbandono. La festa era una conferma sociale,  un “questo-qui”   durante il quale ognuno si sentiva accettato e si buttavano un quantità di soldi alla statua  per  risarcimento a ciò che eravamo e perché tenesse lontano il malocchio. Chi  emigra  vuole mantenere rapporti con il paese ed è condannato a diventare  ricco perché il paese questo si aspetta, vuole anche lui conferme a una sua fantasia e non importa come li fai tanto, se li fai, comandi e decidi tu quello che è lecito o no. In caso contrario, l’ autostima dell’emigrato finisce come sui cessi a vento.     

I miei ricordi li  lasciai  in piazza, ai bordi della fontana dei cavalli, in mezzo ai piccioni che, se gli dai un po’ di granone, ti volano addosso col pigliapiglia  delle anime del purgatorio quando escono dalla bocca delle vecchie giaculanti  a suffragio. Lì si saranno  specchiati per tutto il tempo della mia  assenza, rimasti bambini coi riccioli saraceni, il naso rotto in corsa e l’osso  degli zigomi viola per le sassaiole. Inciampo nel futuro del mio passato perché è il passato che deve avere un senso che voglio ritrovare e poter dire “non è quello ma è questo, non è lì ma  è qui”.  Chissà se i  cavallari sono già arrivati per far abbeverare le mandrie.  Pirro, il  cavallo nero come Annibale e  cogli occhi saturnini,  sbufferà  un nitrito d’argento sull’acqua. Ho con me un cartoccio di  carrube.  Il capoparanza laverà  il sangue di pecora dal suo coltello d’abigeatario.  In fondo anch’io, col mio popolo,  sono stato un abigeatario del lavoro nero -nero-brigante o nero-carbone. Ho scelto  un viaggio di ritorno  più tortuoso di quello d’andata. Ora sto in questo vagone  che spruzza vapore d’ acqua e carbone.  Non sono molto sicuro che la fontana rispecchierà la mia immagine, che  riconoscerà una faccia piena di cicatrici. Una volta misi un bastone nell’acqua e mi apparve spezzato. In Belgio, sentendo di notte il respiro  di mio padre fratturato da una tosse con  rantoli di buio, pensai a quel bastone. Era la frusta di mio padre, che in miniera cantava sempre. Voglio lavarmi la faccia nella fontana dei cavalli, strappare i miei pensieri da carta copiativa. A ogni fermata c’è un treno che aspetta questo  perché i  treni del ritorno si fermano a strani  incroci e giungono inevitabilmente puntuali alle coincidenze.  Ne vedo uno  correre   in direzione opposta. Scorgo  dal finestrino i miei paesani. Abbasso il vetro. Grido  di non andare in Limburgo, che  c’è la silicosi, che li ammasseranno in baracche di ferro, che la nebbia è salata e nera  e le montagne sono gli scarti di carbone di una terra senza betulle. Non mi sentono. Mia madre Vitina dorme esausta, abbandonata anche dalla stanchezza. Io ed Egidio le scivoliamo addosso, attratti dalla forza di gravità del suo sonno. Bianchissima, con un odore di  confetto e  naftalina,  luminosa come la prima neve tra le  arance di ottobre,  c’è  la ragazza che  viaggia  vestita da sposa con il corredo di sorrisi  che porterà al fidanzato appena scesa dal treno. Solo lei e la statua della Madonna non hanno le spalle curve. Le bizzarre architetture della vita si reggono sugli archi della spina dorsale. Le vertebre ancora  mi pungono come allora, quasi un’infiorescenza di more o di roveti. Il mio sonno ha  sandali di sambuco,  sbadiglia come  il lago accerchiato da cipressi bianchi.Vuole svegliarsi ma io mi accosto alla calamita del calore  di mia madre  e non voglio aprire gli occhi  perché sto sognando che mi sogno ritornare ma  non ci sono  la sposa e la Madonna e ho le spalle curve come il collo dei cigni che quando scivolano immobili sull’acqua sembrano  un punto di domanda.  Ho sete. Sono vecchio come  l’arsura  dei calanchi esplorati dalla luna. Anche la luna fa un lavoro nero: non gira mai sull’asse e neanche sa di avere un’altra faccia.

Nel pugno scotta una manciata di  lumache raccolte a  giugno dopo la bruciatura dei campi di grano e ascolto una musica antica così dolce da essere brutale. La ghisa dell’ascolto si spacca.


Vedo che ne esce   uno sciame di tafani ronzanti come sull’aceto quando matura. Sto quieto  ma non tranquillo, ago di bilancia  che presume di misurare le cose   e non sa che è predestinato dai numeri e dal peso. Ho deciso di tornare d’impulso, dopo aver letto in una rivista  della “biston betularia”, una farfalla con le ali bianche che si trasformarono in nere qualche anno dopo che gli inglesi cominciarono  a scavare miniere di carbone  Esaurito il carbone  e chiuse le miniere,  le ali della farfalla tornarono bianche. Esempio di mimetismo industriale  era il titolo dell’articolo. Cinquant’anni fa partimmo all’alba, come si conviene alla partenza, col sole e il  sempre  alle spalle, quando le allodole si incantano ascoltando il loro richiamo rimbalzare in uno specchio,  nell’ora in cui  i briganti affiliati a Crocco  bussavano all’uscio dei miei bisnonni  per il pane e la polvere da sparo. Chissà perché  Garibaldi e i mille si studiano a scuola e di Crocco e dei suoi non si dice niente.Perché la storia si scrive in italiano e non in lucano. Il lucano, ci diceva il maestro, è bellissima: greco,  illirico, osco e  tante altri popoli. “Osco” mi faceva pensare a “bosco” e “oscuro”. OUO   allungavano  radici nell’ esofago, fino alla pancia, dove nascono i lamenti; SC-SC era il serpente nascosto nei granai o il dito di un compagno portato al naso come a dire “stai zitto che adesso succede una cosa”. A sentire la prima volta “Limburgo”  pensai a un limbo, solo che, arrivatoci, scoprii che era nero e non bianco. La nostra lingua è piena di  aspirate, un aspirare l’aria    prima di emettere fiato per parlare quasi che,  parlando,  uno rischi l’ apnea. Così fa il vento quando scrive sull’argilla dei fiumi o alza mulinelli  sui terril di  carbone.

Basilicata,  basileus, basilico e basilisco. Cose evocative, che ci facevano apparire il maestro che ce le spiegava come un re-pastore.  Già. Ma il maestro ci spiegò anche che dopo la vittoria  piemontese per l’Unità d’Italia  migliaia di giovani soldati dell’esercito del sud furono internati in  campi di concentramento al nord, fortezze di fortezze  come Le Finestrelle (ci fece vedere una foto)  e lì lasciati morire di stenti e umiliati  perché non volevano prestare giuramento al nuovo re. Se fossi stato io il re d’Italia avrei incarcerato gli spergiuri. 1.000.000 di morti, 54 paesi bruciati, centinaia di migliaia tra dispersi e  famiglie disgregate. Insomma, al sud  le vittime dell’unità d’Italia e del nuovo stato  furono  una pulizia etnica. Partimmo nel 1960, dopo giusti giusti 100 anni dall’Unità. Sull’ Aspromonte i paddechi, schiavi, di lingua greca, si  vestivano di sparto, ginestra,  e mangiavano pane che il deputato  Zanotti-Bianco buttò in aula dal suo scanno in parlamento perché gli onorevoli  si rendessero conto delle condizioni   dei calabresi. Prima dell’unità gli italici che più migravano erano piemontesi e veneti; dopo il 1880  a emigrare fu il sud., le cui palanche formarono l’80% della tesoreria del nuovo stato. Il maestro ci parlò poi  di un accordo del 1946  tra governo italiano e belga. (1.000 minatori contro 2.500 tonnellate di carbone all’anno) Dunque, io valevo il carbone che ho estratto il primo anno. L’affare lo hanno fatto i belgi e le imprese  italiane del boom economico che hanno utilizzato i risparmi inviati  al paese e che le banche, come ancora oggi,  trasferivano a imprese del nord costringendo quelle del sud allo strozzo. Il maestro un giorno arrivò irritato in classe. Indagammo col bidello e sapemmo che si era beccato  un rimprovero dal direttore della scuola e da un ispettore  per averci detto queste cose. Prima che in Belgio   si andava nell’America degli Stati Uniti  a spalare fino a che gli americani non decisero di negare l’ingresso agli italiani (tanti, troppi, analfabeti, preistorici, puzzolenti, con leggi tutte loro) il che accellerò la decisione del  governo fascista  a politiche coloniali spacciate come impero. In Belgio ho voluto  studiare,  ho cercato di capirci qualcosa e mi sono convinto che  per diventare  emigrante, cioè destinato ai margini, non è questione di   nascere  piemontese o lucano, veneto o calabrese, albanese o polacco o nero. E’ una questione di classe nella quale nasci e o elimini le classi  o ne gestisci la rivalità. E ho capito che dietro il voler sopraffare l’altro e l’accumulo idiota di ricchezza c’ è, prepotente, la paura della morte e dei Cimmeri., iPer far tacere i miei dannatissimi rimorsi ho letto molti libri , mi sono messo alle spalle dei personaggi di  molti rmazieri.

 

Non ho condiviso nessuna analisi, non mi sono identificato con nessun personaggio. C’è una presunzione di fondo sia nei saggisti che negli scrittori: parlano di una cosa che non conoscono perché, per il nostro caso,  un conto è parlare della filiera di produzione per estrarre il carbone e di come vive o viene fatto vivere chi fa questo, altro è estrarlo, starci dentro, sviluppare, dopo aver vissuto all’aperto tra montagne,pianure, boschi e campi di grano,  i sensori di un cieco. Tutti  poi  ci analizzano come masse o “movimento”  ma sempre secondo un loro punto di vista, una loro tesi politica o sociologica da vendere a qualcun altro come nello scambio del ’46. Nessuno ci ha mai chiesto cosa pensiamo veramente, cosa vorremmo, e se gli dici che vuoi mangiare tutti i giorni, che vuoi un lavoro almeno dignitoso,  che hai paura per la vecchiaia e vorresti una pensione,  sposarti,  che temi le malattie e vorresti un medico che non cura ma che si prende cura,  intonano il  latinorum delle loro dottrine e chiamano i tuoi bisogni “ideologia popolare” o  “attese piccoloborghesi”. Il nostro universo simbolico, almeno fino alla mia generazione di emigrati, la penultima, è rimasto quello della terra. Conoscevo solo la lingua del mio paese e già uno di Potenza stentavo a capirlo. Per insegnarci un po’ d’italiano il maestro ci leggeva le poesie di Sinisgalli, che  era dei nostri. Posso recitarne a memoria molte. Amo quella  delle monete rosse, la prima che lesse il maestro. Oggi capisco che è una metafora della vita  e che la metafora funziona un po’ come il ponte di Annibale  che sta a   Muro Lucano.

Dal finestrino entra polvere. Sudo l’umido dello  scirocco africano. Da qualche parte un lamento di prefiche, un memento. La polvere.  Mio zio morì per la polvere, come dicevano tutti. Terrorizzato,  corsi a casa e per giorni ci rimasi  a pulire con uno straccio, a  lavare per terra. In Belgio mi hanno spiegato   che “polvere” significa per i minatori  silicosi e  che silicosi ha a che vedere con silicio e che dal silicio si fa il vetro. Dunque, dedussi,  mio zio morì perchè il suo respiro  era indurito  come vetro , gli tagliava  i polmoni. Più tardi avrei scoperto  che, per evitare che la cosa si sapesse in giro,   chi tornava a casa perché ammalato di silicosi, inidoneo ormai a estrarre carbone ma che col suo lavoro aveva ampiamente superato il punto di pareggio costi-benefici italobelga,  era costretto dalle autorità italiane  a fare un viaggio studiato  in modo  da non fargli incontrare chi saliva. Chissà quanti treni carichi di tossi, quante bisacce con frantumi di vetro. La mia famiglia in Limburgo alloggiava  nelle baracche che erano servite come campo di concentramento nazista. Furono le donne, mia madre in testa, a ribellarsi e ottenere una casa , almeno quattro mura, e  furono loro che mi imposero di tornare alla scuola  che lì  avevo abbandonato perché non capivo come parlavano i belgi e poi nessuno conosceva Sinisgalli e il gioco delle monete rosse. A una spiegazione  di storia chi sapeva tutto su Annibale ero io e ne parlai, in lucano, con gesti enfasi e tale passione che tutti mi capirono e da allora  mi soprannominarono “ fenicio”. Imparai il  fiammingo giocando, scendendo con gli altri ragazzi le montagne terrili  su padelle adattate a slittino. Ho voluto conoscere  molte altre cose. I paesani, venendo a casa a trovare papà, che non cantava più, pensavano che studiassi da prete o da medico. Era il solo modo per loro di spiegarsi la presenza di tutti quei libri e venivo guardato anche con un po’ di sospettosa venerazione.

I piedi continuano ad avere convulsioni. Un terremoto scuote cimbali e la voce di mio padre si sparge come acqua sul pavimento. Mi affaccio dal finestrino e capisco che dietro il treno è scomparsa anche la notte. E’ dunque vero quello che della notte scrisse  Scotellaro. I poeti sono quelli più vicini al popolo. Ci capiscono, dicono quello che diciamo noi, ragionano come noi. E cantano, come noi.

Voglio scrivere sull’agenda  un testo di Rocco Scotellaro, uno del Sud:

 

La luna piena riempie i nostri letti,

camminano i muli a dolci ferri

e i cani rosicchiano gli ossi.

 

Si sente l’asina nel sottoscala,

i suoi brividi, il suo raschiare.

In un altro sottoscala

dorme mia madre da sessant’anni.

 

E ,a fianco , una poesia di Pasolini, uno del nord:

 

Sera imbarlumida, tal fossàl

a cres l’aga, na fèmina plena

a ciamina pal ciamp.

 

Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur

da la sera, quand li ciampanis

a sùnin di muart.

 

che trasporto, mettendogli le mani in tasca,  dal friulano all’ italiano:

 

Sera imbarlumita, dentro il fosso

lievita l’acqua, una femmina  piena

cammina per il campo.

 

Sono io che ti ricordo, Narciso dal colore

della sera, del quando le campane

suonano a corpo morto.

 

In questi due testi   c’è il senso della mia storia, ci sono le persone che popolano i miei ricordi. C’è mia madre Vitina, che dorme,  asina con le giunture a pezzi,  in un altro sottoscala mentre la luna le passa sopra attratta dal suo sonno come lo ero io. C’è Sisina, la sposa che fu anche mia madre e che quando sorrideva faceva  due fossette dove venivano a bere i passeri. C’è il fosso del passato dove Narciso incontra il volto del suo gemello morto. C’è anche la Madonna del paese, la femmina incinta di silenzio che cammina per il campo. Forse emigra a piedi.  Rocco dice “luna piena”, Pierpaolo “fèmina plena”. Maria è gratia plena. Se la madre di Rocco dorme da sessant’anni vuol dire che è forse morta, dentro, insepolta  del fosso dove cresce, come creta , l’acqua che non bagna le mani, il mercuriale  specchio. E se le campane suonano assenti e col suono pesante come un corpo morto, scavando nella torbiera dell’immaginazione mi accorgo che chi suona a morto è sì una campana ma che questa ri-sponde a un richiamo del campo (santo?) e che ha dentro di sé, testarda,  il “campare”.Vorrei parlare di Rocco e Pierpaolo, di Narciso e dello specchio d’acqua e penso che, in fondo, la mia fontana dei cavalli funziona come queste due poesie, che Pirro sbuffava un nitrito d’argento sull’acqua perché l’argento-bianco della luna ha il nerofumo della morte:  si equivalgono, sono barlumi intorno ai quali i cani, animale cimmerio ,sempre associato alla morte, che è fedele, rosicchiano gli ossi. Quegli ossi sono sotterrati nel fosso dove lievita l’acqua e dove Maria va a bere per dissetare il silenzio.

 

Quando  leggevo per i minatori (divenne  un’abitudine che si iniziasse il turno facendomi leggere una poesia nell’ascensore e che la stessa la leggessi nel risalire) non capivano le parole, chè erano analfabeti, ma le immagini sì e creavano  i collegamenti giusti perché loro erano abituati a camminare nei boschi, a fare innesti.

Un giorno vennero in miniera alcuni psicologi o assistenti sociali per osservare, tra l’altro, il

Q:I. dei minatori e in particolare di quelli più vecchi. Fui sorteggiato anch’io e mi somministrarono  un test che consisteva nell’indicare quale tra vari oggetti fosse un intruso.

Gli oggetti erano albero, martello,sega, accetta. Indicai il martello. Mi fu obiettato, con garbo, che l’intruso era l’albero in quanto non era un  attrezzo. Era giusto ma formale. Risposi che

gli oggetti presentati servivano a lavorare su qualcosa e questo qualcosa era, nel test,  l’albero   per cui l’intruso per me continuava a essere il martello. Cancellai l’albero e disegnai sul loro  foglio un piccone. Così non c’erano più intrusi ma era evidente che, passando dall’astratto al concreto, era proprio l’intruso che dava senso agli altri oggetti, li arricchiva di una funzione.  . Il mio Q.I. risultò elevato, con orgoglio di mio padre.Avevo semplicemente ragionato come mio nonno quando discuteva a lungo con i cantori che di tanto in tanto venivano a dirci cos’era successo nei paesi vicini..

L’emigrazione si svolge come un rito, è il nostro rito,  un riflesso condizionato. Gli extracomunitari che vengono in Italia  hanno i nostri stessi problemi di allora e certamente ci sarà stato se non uno scambio un accordo: tu dai spazio in Italia ai miei disoccupati, così me li levo dai coglioni, e io compro il tuo pesce secco o ti faccio uno sconto sul petrolio.

Del resto,  la silicosi di allora vale come l’amianto o  l’uranio impoverito.

Nel 2001 è stato dato il voto agli italiani all’estero, dopo centocinquant’anni. Che ridere: “italiani all’estero”, come fossimo turisti.

Il profilo del Vulture. La prossima stazione è il mio paese. Certamente sarà cambiato. Il treno rallenta e vedo case nuove in fila, tante auto,  antenne della televisione, l’ H di Ospedale (addirittura!). Non sento (è fine agosto) l’usta dell’ uva. Da un portone escono le voci di  un gruppo di ragazzi che  certamente giocano   con  monete. Il treno si ferma. Mi affaccio. Chiedo, in lucano, a una ragazza seduta su un motorino e con un piercing  sul labbro inferiore:  -“Sa dirmi la strada per  la fontana dei cavalli e la scuola elementare?”.

 Mi sorride (due fossette, ma non vedo passeri); mi risponde in italiano

-“Scusi, come dice? Non ho capito”

-“neanch’io” ».

 

 

                                               Mimmo Grasso


Manifestazione per Piazza Fontana

Il video della manifestazione con gli arazzi creati dalle Accademie Artistiche Italiane con l'intervento di Dario Fo.

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