Corso di teatro con Dario Fo e Franca Rame (in diretta da Alcatraz)
Questa settimana potrete seguire da qui le dirette da Alcatraz del
corso di teatro con la partecipazione straordinaria di Dario Fo e Franca Rame
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Questa settimana potrete seguire da qui le dirette da Alcatraz del
corso di teatro con la partecipazione straordinaria di Dario Fo e Franca Rame
Ancora una volta un malinteso senso del sacro porta le gerarchie ecclesiastiche a praticare la censura.
Lo spettacolo che avrebbe dovuto essere rappresentato ad Assisi, tra il 2 e il 5 giugno avrebbe certamente fatto scandalo. Ma non dal punto di vista religioso. Dario Fo aveva intenzione di portare il suo nuovo spettacolo che dimostra che una convinzione molto diffusa è errata.
I dipinti della basilica superiore attribuiti dai libri di scuola a Giotto non sono di Giotto.
E la cosa interessante è che oltretutto la rappresentazione aveva avuto l’appoggio dei frati francescani di Assisi, anch’essi dell’opinione che quei dipinti straordinari siano da attribuire ad altri grandi maestri del tempo.
Su questa tesi Dario Fo ha costruito una lezione-spettacolo divisa in 3 serate, un tempo indispensabile per argomentare la propria tesi basandosi su diversi particolari storici e tecnici. In particolare il fatto che ogni scuola da quella Romana a quella Toscana si avvaleva di una tecnica pittorica particolare e diversa, nonché di sagome fisse e articolate in modi differenti per riprodurre il disegno.
Tutti questi elementi tecnici procurano una specie di impronta digitale nascosta dentro il dipinto, impronta che ci assicura come nella navata della Basilica Superiore di Assisi Giotto non abbia partecipato con un proprio gruppo all’esecuzione degli affreschi se non come semplice assistente o allievo.
Ma l’importanza culturale dell’opera che si voleva rappresentare e il sostegno del sindaco di Assisi Claudio Ricci non sono riusciti a convincere il vescovo Domenico Sorrentino a ritirare il suo veto.
Vanno bene le canzonette di fronte alla basilica di San Francesco, vanno bene le ragazze danzanti e perfino i numeri da cabaret ma, per favore, niente storia dell’arte!
Incredibile, che nel 2009, in Italia si vieti a un premio Nobel di parlare di pittura di fronte a una chiesa.
Lo spettacolo Giotto o non Giotto sarà rappresentato in luglio il
2-3 Cesena alla Rocca Malatestiana
8-9 Firenze di fronte alla basilica di Santa Croce
24-25 Perugia nella piazza di San Francesco in Campo
Fantastico 1988. Presenta Adriano Celentano. Franca Rame gli telefona e propone il suo famoso brano "Lo Stupro". Adriano accetta. La RAI media e alla fine acconsente.
Fino all'ultimo minuto Franca non fu sicura di poter recitare il suo pezzo. davanti a 12 milioni di telespettatori, Franca recita "Lo Stupro", sconvolgendo schemi e rituali televisivi, suscitando un immenso scalpore nel Paese. Questo video storico e raro presenta l'intero evento suddiviso in 2 parti presentate nella versione intergrale con la presentazione di Celentano. Il Video, curato, montato e pubblicato da Fabio Greggio, sarà proiettato il 25 novembre nella sala del Ridotto del Teatro Frascini di Pavia: infatti Franca e Fabio, che saranno presenti all'evento, hanno deciso di donare il video all'Associazione LiberaMente "Donne contro la violenza" di Pavia. I video sono disponibili nel canale YouTube FrancaRameVideo...
Dallo spettacolo "Sesso, grazie tanto per gradire" Franca Rame recita la Prima parte del monologo esilarante e comico che culmina con la simulazione di un orgasmo. Teatro Smeraldo 8 marzo 1995
Visita il canale YouTube di Franca: http://it.youtube.com/user/FrancaRameVideo
In questi giorni nei vari articoli apparsi sui quotidiani a commentare la censura di cui è stato vittima Daniele Luttazzi, si sono susseguiti a iosa termini come “buongusto”, “stile”, “opportunità”, “decenza”, “trivialità”, ecc..
All’istante, di contrappunto mi sono venute in mente caterve di espressioni e situazioni scurrili a dir poco feroci, impiegate da maestri storici della satira, a cominciare da Mattazzone da Calignano, grande giullare lombardo del XIII secolo, che, in un suo fabulazzo sulla lamentazione dell’uomo per la pena che Dio ha imposto a lui e alla sua femmina, elenca le fatiche e le mortificazioni nonché i continui flagelli e morbi a cui le creature umane sono sottoposte fin dalla creazione. Il Padreterno si lascia convincere dalle invocazioni dell’uomo e, ipso facto, decide di creare a suo vantaggio il villano, che lo servirà “in ogni bisogna” al par d’uno schiavo. In quell’istante passa di lì un asino e il creatore con un gesto della sua mano santa lo ingravida. Al nono mese, preannunciato da “un trempestar tremmendo de fulmini e saiette, de la panza de l’anemal, traverso el so’ cul de lü, sbotta de fora ol vilan spussento, tüto empastao de merda sgarosa e: stralak! Sto cul sforna criante ol servante creat da Deo. Una piova sbatente se spraca contra el corpazon del vilan scagazzao spussente, perché se faga cosiensa de la vita de merda che ve se presenta. ‘Da po’ che l’è nato egnudo’ ordena el Segnor ‘deghe un para de brache de canovasso crudo, brache spacà in del messo e dislassà, che no’ debbia pert tropp tempo in del pissà!’.”
Subito appresso mi appare Bescapè, un contemporaneo di Mattazzone da Calignano, che ci accompagna, mezzo secolo prima di Dante, nell’Inferno, dove personaggi ben noti della società del tempo vengono immersi a testa in giù nello sterco fumante, costretti a compiere gargarismi, trillando in gola secchiate di escrementi prodotti da animali fra i più fetenti.
E poi ancora vedo scorrere i milanesi longobardi sconfitti da Carlo Magno, che un anonimo fabulatore descrive costretti dall’Imperatore a “nettar co’ la lengua l’arco treonfal, costruit da lori mismi a onor da lu venzedor franzoso. Sü l’arcon tüti i soldat de Carlo gh’hann pissat sovra per una jornada entera e anco smerdao con cüra. Das po’ a ognün de’ Longobar fue ordenat de catar rospi, ratti e pantegan de fogna, e cusinarseli per far gran banchetto. I poverazz, boni cosiner con erbe parfumate, hann insaporit i boccon del pasto, engorgià tuto con gran fatiga e despo’ all’entrassat, tuto ch’avien magnat, gh’hann vomegado fora. L’emperador, desgostà, l’ha criat: ‘Ma cos’è ‘sta porcaria? No’ voi védar per le mee terre ‘sto vomegame! Lecadevelo subetamente e che tuto sia ben polido!’. Oh ch’el regal potestà!”.
Di certo si tratta di brani poco noti, che però Dante Alighieri ben conosceva per averli addirittura raccolti nel suo De Vulgari Eloquentia. Attraverso queste testimonianze, è risaputo, il sommo poeta, insieme ad altri autori che l’hanno preceduto, costruì il nuovo linguaggio, o Dolce Stil Novo, che ognuno di noi impara a considerare la base assoluta della nostra cultura.
Lo stesso Dante usa immagini similari per colorare di veemente indignazione la presenza di certi notissimi personaggi in cui incappa nell’infernale viaggio osceno. “A chi servirà quel buco vomitante fuoco?” chiede il tosco poeta a Virgilio. E quegli risponde: “Là dentro verrà fra poco infilato testa in giù, un Pontefice che ben merita di starsene a cottura lenta e le natiche al vento a sbattacchiar gambe al par d’un forsennato!”. Quel Pontefice è nientemeno che Bonifacio VIII, quello che incarcerò, costringendolo a vivere incatenato tra le proprie feci, Jacopone da Todi che si era permesso di insultare il Santo Padre in questione urlandogli: “Ahi! Bonefax! Hai iogato ben lo munno! Ahi! Bonefax! Che come putta hai traito la Ecclesia!” cioè, come una puttana hai ridotto la Chiesa!
Oggi, si sa, nessun cardinale si permetterebbe di porre mano pesante su questi scritti... è questione di opportunità e stile... oggi!
Ma di certo vi farà sussultare di stupore scoprire che anche il santo giullare Francesco di Assisi spesso si lasciasse andare a espressioni di un linguaggio azzardato, per non dire sconveniente. Infatti in una delle storie testimoniate da suoi seguaci, si racconta che un giovane discepolo un giorno si recò da lui disperato, sconvolto, giacché continuava ad apparirgli un orrendo demonio che lo tormentava con lusinghe e minacce, perché si lasciasse indurre nel peccato. Francesco, dopo averlo ascoltato, da autentico giullare quale era, disse al suo tormentato fratello: “Sai che debbi fare? Quando verrà l’enfame demonio, tu digli spietato: ‘Veneme appresso che eo te abbranco per l’orecchi, ti vo’ a spalancà la bocca e in quella ci caco dentro tutto lo smerdazzo che me riesce d’emprignatte!’. Così il giovine seguace repetette a lu demonio quella menaccia che Francesco li avea soggerita: ‘Te vo’ cacando in la bocca finché t’annego de merdazzo!’ Quello diavolo, preso de lo terrore, fuggì, annanno a sbatte contro rupi de le montagne che se sgretolaveno, come sotto tremmamoto, e tutto lo covertirno, seppellennolo per l’intero.”.
È inutile sottolineare che di questa leggenda non si trova traccia nella versione ufficiale della vita di Francesco, quella riscritta quarant’anni dopo da fra Bonaventura da Bagnoreggio, eletto a generale dell’ordine dalla Chiesa di Roma, che censurò l’originale, anzi lo distrusse addirittura mandandolo alle fiamme.
Ma quello di mascherare le notizie e le testimonianze che danno impaccio alle elegie è cosa di tutti i giorni da sempre. Al contrario spesso si scelgono bell’apposta, come nel caso di Luttazzi, le espressioni e i lazzi satirici palesemente scurrili e si mettono in bella mostra allo scopo di abbassare il livello di dignità dell’autore.
Conosciamo bene questa pratica davvero ipocrita e furbesca: ti si accusa di usare forme oscene di linguaggio per censurarti o addirittura eliminarti dalla scena.
A me e a Franca è accaduto con Canzonissima quando ci permettemmo di parlare di morti bianche sul lavoro e della mafia criminale. Nessuno, fino ad allora, sto parlando di quarant’anni fa, aveva mai trattato l’argomento. Anche in quell’occasione, fra le tante accuse, quali quella di buttarla in politica, ci si scaraventò addosso anche l’accusa di scurrilità e di non rispettare il comune sentire degli spettatori.
Luttazzi non a caso stava preparando una puntata sull’enciclica del Pontefice.
Come eliminarlo senza mettere in primo piano l’autentico soggetto?
Si fa la carambola: si spara su un bersaglio laterale per poterti di rimando colpire in piena fronte o, se volete, in piene chiappe.
A parte che un bersaglio come Ferrara, è così generoso, da non potersi sbagliare!
Esulta, mio caro Daniele! Così ti hanno eletto a classico della satira, e anche della letteratura! Complimenti!
Dario Fo
Il giornalista Pierluigi Battista sul Corriere di qualche giorno fa, mi sferra un attacco a spaccagambe e lo fa in una specie di recensione a un mio testo satirico, Morte accidentale di un anarchico, appena andato in scena per la quarta volta consecutiva negli ultimi cinque anni qui in Italia, con debutto a Milano.
Gli attori, a detta della maggioranza dei critici, sono eccellenti; i registi Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, sono riconosciuti direttori scenici di notevole talento. Visto il numero straordinario di repliche effettuate in tutta la penisola da anni, è comprensibile il continuo ripetersi degli allestimenti.
Ma l’autore della stroncatura non se n’è accorto: crede che le continue repliche siano dovute a una mia ostinazione ideologica, non al successo e al gradimento del pubblico.
A dimostrare la tendenziosità esplicita dell’articolo in questione, dove mi si presenta come difensore di un’infamia perpetratasi più di trent’anni fa e autore mancante di pietas, viene subito all’occhio un particolare davvero sconcertante: il Battista non prende in considerazione né la chiave né il tema della commedia, e tanto meno il luogo fisico dove si svolge l’azione.
Nessun recensore di qualità al mondo sarebbe incorso in un simile pacchiano errore. Ma in verità non si tratta di errore. Piuttosto si tratta di una furbizia da Brighella, giacché con questo escamotage, si evita di portare in primo piano la questione fondamentale dell’opera, cioè la tragedia di Pinelli e la morte dell’anarchico dopo un volo dal quarto piano della questura di Milano.
Il Battista, da non confondere col santo del Battesimo a Gesù, non si chiede nemmeno se l’anarchico sia precipitato ancora vivo o già privo di vita, cioè se si sia trattato di un suicidio o di un omicidio. Va da sé che il “povero” Pinelli, come lo chiama il sensibile Battista, si sarebbe dato da sé la morte prendendo una considerevole rincorsa e superando a volo d’angelo la balaustra di 90 centimetri e, in seguito a una parabola adeguata alla forza di slancio, abbia raggiunto il suolo schiantandovisi.
Il Battista mi accusa inoltre di aver cucito la pièce “con materiali inquinati dal pregiudizio e dal fanatismo politico”.
Ora, quali sarebbero i materiali inquinati di cui mi sarei servito? Eccoli: niente meno che gli atti processuali del dibattito svoltosi in aula nel Tribunale di Milano appena qualche anno dopo la strage di Piazza Fontana e la più che sospetta defenestrazione di Pinelli, accompagnati dalla documentazione e dagli atti della revisione dell’inchiesta condotta dai giudici di Milano, in particolare da D’Ambrosio.
Ogni dialogo o dichiarazione nella commedia è tratto quindi da documenti assolutamente autentici e soprattutto sconvolgenti. Come diceva Molière: “la realtà è sempre più impossibile della fantasticheria scenica”.
Tanto per cominciare, in Morte accidentale di un anarchico, già nel primo atto viene riproposta la dichiarazione del questore di Milano, Marcello Guida, che, intervistato dal telegiornale Rai, il 15 dicembre 1969, solo qualche ora dopo l’avvenuta morte di Pinelli, racconta come si sia svolto il suicidio dell’anarchico in questione. Il dottor Marcello Guida, capo superiore della Polizia, davanti alle telecamere recita la propria entrata in scena nell’ufficio dove era “trattenuto” il “povero” Pinelli, invitato amichevolmente in Questura per semplici accertamenti.
Il Guida gli si rivolge perentorio dicendo: “Il suo compagno Valpreda, or ora interrogato, ha ammesso di essere l’autore della strage della Banca dell’Agricoltura di Milano: è lui che ha messo la bomba”. Al che il Pinelli, sbiancando in viso si sarebbe levato in piedi gridando: “E’ la fine dell’anarchia!” e, montando nella disperazione, si sarebbe gettato dalla finestra.
Ora urge condurre una breve analisi. Sappiamo che Valpreda finì in carcere e subì più di un processo; dopo tre anni di detenzione i giudici lo riconobbero assolutamente innocente. Quindi il questore Guida nella sua sparata verso Pinelli aveva spudoratamente mentito: Valpreda non solo non aveva compiuto l’atto criminale, ma fin dall’inizio si era dichiarato completamente estraneo ai fatti, per ciò nella commedia si sottolinea che il questore di Milano si è servito di un’infamia per indurre il Pinelli a una crisi e fargli ammettere d’aver partecipato alla messa in atto della strage.
Non si tratta quindi solo di un espediente poliziesco ma di un vero e proprio crimine.
E ancora, quando fa esplodere l’espressione disperata in Pinelli “E’ la fine dell’anarchia!”, il signor questore lo descrive nell’atto di gettarsi immediatamente dalla finestra, dimenticandosi di due sostanziali dettagli.
Quella notte la temperatura esterna, a Milano, era sotto lo zero, solo un pazzo poteva tenere le finestre spalancate con un gelo simile. Quindi dobbiamo arguire che la finestra fosse chiusa e se la sarebbe aperta da sé solo il Pinelli; ancora, retrocedendo, l’anarchico avrebbe preso una buona rincorsa e prodotto il tuffo letale. Oppure, qualche amabile poliziotto, che casualmente si trovava presso la finestra, lo avrebbe aiutato esclamando: “Prego s’accomodi!”.
Durante il dibattito processuale il giudice chiedeva come mai nessuno dei poliziotti presenti, che per loro ammissione si ritrovavano nei pressi della finestra, non fosse intervenuto cercando di bloccare il gesto suicida del Pinelli. Due dei poliziotti, imbarazzati, non sapevano cosa rispondere, ma un terzo, il brigadiere Vito Panessa, dichiarava: “In verità io personalmente mi sono preoccupato, tant’è che ho afferrato l’anarchico quasi al volo per un piede, ma mi è sfuggito egualmente, lasciandomi però in mano la sua scarpa...”. Il giudice, dopo una veloce inchiesta, scopriva che il Pinelli sfracellato al suolo portava ai piedi ancora tutte e due le scarpe. Quindi bisognava decidere: o Pinelli era tripede o i poliziotti a loro volta mentivano.
A ‘sto punto chi di noi due, Dario Fo e Pierluigi Battista, possiede il “demone ideologico”? Io che racconto i fatti traendoli dai verbali e dagli atti processuali o il Battista che li ignora, e demonizza chi la pensa in modo diverso da quello ufficiale, che poi è il suo? E a quale altro linciaggio vado incontro se mi permetto di ricordare, che dalle immagini del servizio televisivo, a fianco del grande bugiardo statale, il Guida, si notava proprio il commissario Calabresi che ad ogni dichiarazione del suo superiore, il questore, assentiva col capo e con adeguate espressioni per niente imbarazzato!?
Di questo particolare da niente, che sottintende un’operazione volta a deviare le indagini su un massacro organizzato da forze dell’estrema destra, oggi abbiamo idee più chiare.
E questo, grazie all’inchiesta del giudice Salvini che ha indagato sui corpi dello Stato, occulti e palesi, raccogliendo una straordinaria documentazione che ci svela come il centro operativo, situato nella caserma Pastrengo di Milano, fosse in possesso perfino di aerei privati coi quali trasportare, secondo l’occorrenza, di volta in volta dalla Spagna e ritorno, la manodopera criminale con tanto di passaporto, stipendio e copertura. Manodopera che, giunta nei luoghi preordinati, metteva in atto azioni terroristiche.
Il Battista non fa alcun cenno a questa situazione da fantascienza criminale e taccia me, autore della commedia, che invece ne parlo, di mancanza di pietas. Non è che qualche volta la pietas viene confusa con l’hypocrites?
Ma il Battista, strada facendo si eccita e va giù sempre più pesante. A proposito dell’omicidio Calabresi e dal particolare che, secondo il mio modo di vedere, e non soltanto mio, gli autori del crimine siano da ricercare in tutt’altra direzione, per esempio fra le varie organizzazioni di polizia segreta di cui abbiamo accennato, così vivaci ed efficienti nel nostro Paese, il giornalista mi accusa di disegnare “con furore incomprensibile una dietrologia di seconda mano”.
Ma che vuol dire dietrologia di seconda mano? Forse si allude a un’altra di prima mano più attendibile?
Come vado sostenendo ormai da anni, il delitto Calabresi ha inizio dal momento in cui al commissario tolgono la scorta di protezione: solo dopo tre giorni mettono a punto l’omicidio. Calabresi era conscio che qualcuno si sarebbe giovato del saperlo indifeso e abbandonato, tanto che commentò: “Se qualcuno vuol colpirmi, questo è il momento giusto!”.
E chi poteva essere al corrente di quell’isolamento, se non le polizie segrete e deviate, preoccupate di mantenere il silenzio?!
E tu guarda è proprio a ‘sto punto che il Battista scodella l’accusa di dietrologia fanatica e insensata. Forse gli sfugge il numero impressionante di poliziotti, sottufficiali e ufficiali superiori che troppo sapevano e che nell’ultimo mezzo secolo sono scomparsi attraverso strani suicidi, brutali incidenti o palesemente assassinati, basta ricordarsi l’elenco dei testimoni della strage di Ustica, uomini di coraggio a cui s’è tolta la parola, ultimo addirittura un generale accoltellato a Bruxelles. * Tutti dietrologi ossessionati?
Quindi, al contrario di Battista, io personalmente sono più che convinto che Sofri e i suoi compagni condannati per quel delitto siano assolutamente innocenti e che Leonardo Marino, l’accusatore, unico testimone in forza alla polizia, sia stato letteralmente plagiato, o meglio ammaestrato, dal gruppo speciale di Carabinieri che l’ha tenuto a lezione per più di un mese. Particolare questo che è venuto alla luce soltanto dopo un anno dall’inizio del processo, grazie alla testimonianza, imprevista e imprevedibile, di un sacerdote al corrente dell’operazione di imboccamento di Marino da parte della Benemerita.
Così ecco che al processo Marino testimonia di tutta l’operazione che doveva portare all’assassinio di Calabresi. Soltanto che, ahimé, riferisce particolari che risultano spesso errati o addirittura falsi.
Per esempio il testimone si auto-accusa di due rapine realizzate con l’appoggio di tre suoi compagni di Lotta Continua che vengono prontamente arrestati. Ma i compagni, incriminati per chiamata di correo, di lì a qualche mese vengono assolti per non aver commesso il fatto, invece Marino resta dentro.
Gola profonda Marino testimonia, anzi giura, che una delle ragazze del commando sta preparando nelle valli del Canavese un poligono di tiro: ma nello stesso giorno indicato, si scopre che la ragazza si trovava ricoverata in un ospedale di Torino, intenta a partorire il suo primo bambino.
Inoltre, il testimone descrive con precisione la macchina che personalmente guidava nell’attentato: “Era beige”, assicura. Ma in verità appresso si scoprirà che era blu.
Ma dove ha rubato questa macchina? “Nei pressi delle carceri di San Vittore, lato sinistro del viale” dichiara. Errore: la macchina si trovava sul lato destro della strada. “La portiera che ho forzato – dice ancora – era a destra”. Errore: la portiera forzata era quella di sinistra.
Afferma che in macchina non c’era nulla, vuota. E invece i poliziotti ritroveranno la vettura abbandonata qualche ora dopo ingombra di oggetti, i più disparati: palle da tennis in quantità, un paio d’occhiali, un ombrello, una pipa, un cappello, una lampada a pila, delle riviste, carte geografiche di aree orientali, una radio ricetrasmittente truccata in grado di ascoltare le frequenze della polizia (aggiustamento che può essere in grado di realizzare solo un tecnico d’alta professionalità, probabilmente legato a organizzazioni militari), una scatola di fiammiferi, un impermeabile, uno specchietto retrovisore - optional - e sul tetto della macchina, ben evidente, si scopre una lunghissima antenna radio, inarcata, lunga un paio di metri, ma lui non l’ha vista. Non ha visto nemmeno tutta la mercanzia di cui era ingromba la macchina…
Ma come mai questo svarione?
È semplice, poliziotti della PS che hanno ritrovato la macchina del delitto, hanno tenuto celata la presenza di oggetti nell’interno del reperto, quindi non essendone a conoscenza i Carabinieri, come potevano essi procurare l’informazione a Marino?
Ecco il perché della scena muta davanti al giudice.
Ad ogni modo, per concludere questo frammento d’indagine, è chiaro che Marino in quella vettura non c’è mai stato, non ha mai guidato quella macchina. L’unica cosa certa è che gli assassini con quell’auto hanno compiuto il delitto Calabresi. Ma senza di lui. Lui non c’era. Lui è completamente innocente. Un innocente venduto!
Proseguendo, la macchina, secondo gli inquirenti della PS, è stata ritrovata intieramente pulita, e quindi priva di impronte. Inoltre, il proprietario della macchina, al momento di ritirare la vettura a lui rubata, si è reso conto, che le due ruote anteriori erano state sostituite con pneumatici nuovi di zecca. Roba da specialisti del crimine! Ma a queste notizie Marino cade dalle nuvole.
Il tragitto ricostruito dalla polizia in seguito alle testimonianze dei passanti sulle varie strade percorse dalla macchina in fuga dopo l’attentato, non ha niente a che vedere con quello disegnato dal Marino. Anzi, è completamente diverso. Ma gli inquirenti badano bene di non contestare l’evidente diversità… Per carità, se si cominciano ad analizzare tutti gli errori commessi e le frottole raccontate da Marino non la finiamo più!
Altro particolare interessante: grazie a varie testimonianze, alla guida della macchina, c’era una donna, bionda, e dall’aria elegante.
Non c’è traccia di lei.
Quindi, sedici anni dopo l’efferato delitto, appare Marino e gli inquirenti esclamano: “Eccolo! È lui la signora bionda, elegante!” Di certo, ne è una prova la folta capigliatura fortemente arricciata di foggia negroide che gli decora il capo!
Altro grosso particolare, meglio dire grossolano, è il fatto che Marino, scelto come autista della macchina dell’attentato, non conosce Milano, ci è stato poche volte; egli vive a Torino, sua città d’origine. Ma non importa. Importanti sono l’istinto e l’ideale!
Durante l’interrogatorio, il giudice chiede al testimone il nome e le sembianze del personaggio determinante, cioè il basista, ovvero colui che avrebbe dovuto dirigere l’intiera operazione. Marino non ricorda né nome né figura, ma qualcuno gli offre una dritta: si chiama Luigi. “Adesso mi viene in mente! – esclama il Marino – Si tratta di Luigi Bobbio!” Ma, bumpete!, non può essere lui: ha un alibi perfetto. Poi annaspa su altri nomi ma sono tutti inattendibili. Finalmente s’imbatte nell’uomo giusto: Noia, Luigi Noia. I Carabinieri accompagnano il Marino, meglio lo portano nella casa che lui dovrebbe conoscere bene, ma non se la ricorda. Il Noia viene comunque incriminato.
Gli inquirenti esultano: “Finalmente abbiamo il basista!”. Secondo la testimonianza del Marino, al tempo dei fatti, il Noia era privo di baffi e barba, sempre ben rasato. Ma il fratello del Noia, fotografo dilettante, aveva scattato una foto, esattamente nei giorni del delitto, in cui appariva il presunto basista con baffi e barba fluenti, intento a leggere un giornale. Il giornale è il “Corriere della Sera”.
Il fratello si reca allora all’archivio del Corriere; analizzando i titoli che appaiono nella foto e alcune immagini scopre che la data di quel quotidiano è esattamente il 18 maggio 1972, il giorno dopo dell’omicidio Calabresi. Quindi doveva possedere quella barba fluente anche il giorno prima, una barba del genere non ricresce in una notte, ergo non è lui. Gli inquirenti devono forzatamente riconoscere la sua innocenza. Il Noia non è il basista.
Qualcuno si è inventato tutto. Ma senza quella foto oggi il Noia sarebbe stato condannato a vent’anni di carcere con i suoi compagni di Lotta Continua. E ci starebbe ancora, forse, in carcere.
Questo ci dice della serietà di tutto quel processo, dove il perno dell’accusa ruota intorno alla figura di
Marino un personaggio che i giudici di Torino avevano dichiarato testimone assolutamente inattendibile.
In seguito a tutte queste lacune e incongruenze che mal occultano un vero e proprio complotto, nel processo d’Appello del 1993 i giudici popolari, all’unanimità si rifiutano di ritenere colpevoli del delitto i tre imputati di Lotta Continua e il loro voto è determinante per la sentenza finale: Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono da ritenersi innocenti, quindi da liberare.
Ma qui, entra in campo l’orrenda trappola: pur di ribaltare il verdetto, i giudici della Cassazione decidono di mettere in atto la cosiddetta sentenza suicida, cioè a dire, il giudice estensore espone, nel documento finale, la cronaca del processo e le motivazioni della sentenza in modo caotico e confuso, così da rendere tutto inattendibile. A questo punto il giudice superiore è tenuto ad annullare non solo il processo, ma anche la sentenza, quindi tutto da capo e i tre di Lotta Continua tornano sul banco degli imputati. Una truffa giuridica maestrale!
Che ne dice il Battista? Si tratta o no di una sindrome di ostinazione machiavellica, anzi demoniaca, quasi criminale vissuta dentro una stagione politica tetra e asfissiante?
Ma il botto finale del censore, pardon del recensore, è la messa in campo, nel suo articolo pubblicato sul Corriere, di un personaggio davvero terrorizzante.
Renato Farina, che suggerisce l’intervento censorio del Governo nei riguardi di questa mia pièce. Ma chi è Renato Farina, che il Battista usa come ariete da sfondamento nei nostri riguardi?
È un giornalista arruolato nei servizi segreti, il SISMI, nome in codice Betulla; è stato indagato insieme a Niccolò Pollari, alto ufficiale, direttore del SISMI, per il rapimento di Abu Omar, trasportato dall’Italia in Egitto a disposizione della Cia che l’avrebbe addirittura torturato. Per questo la Procura della Repubblica, qualche mese fa, ha radiato Renato Farina dall’albo dei giornalisti! Ma lui continua a collaborare con Libero, come opinionista, Feltri lo protegge.
Bene, caro Battista, ognuno ha le conoscenze che merita!
Franca Rame interpreta Medea all'auditorium di Modena
Motivazione
La Giuria del Premio “Alessandro Tassoni” è lieta e onorata di conferire il riconoscimento honoris causa a Franca Rame, che ormai da decenni, e con una carica sempre rinnovata di intelligente coerenza, illustra il teatro italiano sia come attrice che come autrice.
A questa straordinaria coscienza di cittadina e di interprete di una scena non convenzionale e non digestiva, ma sempre capace di misurarsi con la tragedia e l’idiozia del nostro tempo, la Giuria del Premio “Alessandro Tassoni” rende l’omaggio della sua ammirazione e della sua riconoscenza, che è la stessa di molti, moltissimi italiani.
immagine del rifugio-dormitorio dei clandestini
14.50 Manifestazione contro gli immigrati clandestini e i delinquenti.
“Chi ha baciato i topi ‘stanotte? A volte nel sonno succede di trovarseli sopra la testa!”
“Dicevo che per questi criminali ci vogliono leggi dure... e applicate seriamente... accoglienza zero! Amnistia zero! Comprensione zero!... E i giudici, mi facciano il favore di incriminarli, perseguirli questi clandestini, invece di perseguitare fino all’isteria noi liberi produttori italiani! Ma lo sa che mi hanno messo sul collo un tal numero di incriminazioni, processi, condanne che mi sembra d’essere il figlio cattivo di Craxi! Non posso neanche andare a fare pipì alle Bahamas che subito scatta un avviso di reato! Ma dov’è finita la privacy?!”
Arrivammo al Grand Hotel, nel centro di Stoccolma, e fui alloggiato nella suite all’ultimo piano, al settimo mi pare. Era la suite dei Nobel per la Letteratura, c’era persino una targa che lo indicava. Ci si montava con un ascensore speciale, riservato, del quale mi consegnarono la chiave. Lì un cameriere stava aspettandoci con una bottiglia di champagne e al nostro ingresso la stappò. "Cento di questi giorni!" dissi io, già ubriaco di commozione. Uno degli accademici commentò "Cento sarebbero un po’ troppi… facciamo due o tre! È già abbastanza!". Quindi mi fu annunciato l’arrivo del maestro di cerimonia. Mi immaginavo il solito incaricato in livrea, invece mi apparve un signore affabile e alla mano, col compito di accompagnarmi nel labirinto degli impegni. Quando mi illustrò il programma: scoprii che avrei potuto godere di ben poco tempo per il riposo.
Il giorno dopo, dunque, ci fu il primo incontro all’università, con circa tremila studenti. Al mio ingresso la banda universitaria intonò la marcia di una mia commedia per anni rappresentata in Svezia, Ma che aspettate a batterci le mani, cambiandola poco dopo nell’Inno di Mameli. E quando dei ragazzi, evidentemente italiani, issarono una selva di bandiere tricolore, mi venne pure il magone, tanto che per bloccare i lucciconi, mi sferrai una gran pedata sulla caviglia. Zoppicai per quasi tutta la giornata.
Tornati al Grand Hotel, mi addormentai, quasi svenuto per la stanchezza. Ma ecco che di lì a poco l’appartamento si illuminò di piccole luci contrappuntate da un canto di ragazze. Scattai seduto sul letto: "Che è?".
Nella stanza, una dietro l’altra, stavano entrando delle belle figliole completamente vestite di bianco, e in capo calzavano candeline accese. Si sistemarono intorno al mio letto, cantando con voce dolce e intonata. Riconobbi la melodia "a Santa Lucia, pur’anco i pesci fanno all’amore..."… E mi venne in mente che quello era il rito della notte più lunga dell’anno. Poi con la stessa grazia, le fanciulle lentamente uscirono, quasi sparendo nel buio.
Anche per il giorno seguente la tabella di marcia era forsennata. Fui accompagnato al leggendario Dramaten, il teatro di Stoccolma. Gli artisti svedesi mi avevano chiesto di offrir loro una lezione. Mentre il pubblico applaudiva entusiasta, quasi nascosto dietro una colonna in un palco, vidi Ingmar Bergman che rideva. Sollevai un braccio in segno di saluto: sapevo quanto fosse schivo e ritroso tant’è che mi meravigliò il suo rispondermi applaudendo. Fu una grande emozione scoprire che uno dei più importanti registi al mondo fosse venuto a onorarmi. Quel giorno terminò con il saluto agli accademici nella loro sede.
L’appuntamento più importante, prologo alla consegna del premio, era l’esibizione con discorso davanti agli accademici, agli altri Nobel, nonché a un numero straripante di giornalisti. Io scelsi di recitare un’autobiografia illustrata, in italiano, con grammelot in varie lingue e gestualità conseguenti. Inoltre ad ogni invitato, erano più di 500, sarebbe stata offerta una copia illustrata del lungo monologo, tradotto in simultanea da Anna Barsotti, la bravissima e bella moglie del mio traduttore in Scandinavia. Quei disegni erano un mio dono alla regina di Svezia ma momentaneamente mi servivano per la mia esibizione.
La platea, abituata normalmente ad assistere al rito silenziosa e compassata, dopo un primo sconcerto, stette al gioco divertendosi e, siccome gli spettatori ridevano e applaudivano fuori tempo, li pregai di ridere e applaudire solo a mio comando: il lazzo, paradossale, li divertì oltremodo.
Ma il giorno clou, quello della consegna dei premi, era fissato per l’indomani. La mattina tutti noi vincitori del Nobel fummo riuniti in un salone dove era stato segnato il perimetro del palcoscenico della premiazione. A dirigere le prove c’era una specie di mossiere che ci indicava le entrate e gli inchini alla volta del pubblico, degli accademici e della famiglia reale di Svezia; l’ultimo inchino veniva rivolto al re che consegnava il premio: la laurea con un cofanetto contenente una grande medaglia d’oro.
Ma molti dei laureandi incespicavano e così il mossiere, visto che ero mimo e attore, mi invitò ad aiutarlo. Io radunai i miei colleghi e - unò dué, unò dué - mostrai la sequenza delle posture e come eseguirle con souplesse. Finì che solo il Nobel cinese continuava a inciampare. Subito appresso venne il momento della posa per la fotografia di gruppo.
La consegna dei premi era fissata al Concert Hall, alle 16, un grande auditorium con l’orchestra, che per ogni premiato eseguiva un brano diverso. Io vi arrivai nella limousine nera messa a disposizione dall’Accademia, col mio bel frac, dono di Ferrè, uno dei più geniali stilisti italiani, purtroppo mancato da qualche mese. Per fortuna qualche ora prima della cerimonia era arrivata Franca, che mi aveva aiutato a indossare quell’abito per me paradossale. Anni prima avevo recitato in una farsa dal titolo L’uomo nudo e l’uomo in frac, una satira degli aristocratici e l’uomo in frac ero io. "Non fare come in scena - fu l’avvertimento di Franca - Non è una farsa. Evita di sembrare un pinguino o un cameriere.". Non so se ci sia riuscito, ma risate non ne ho sentite.
Quando il mio nome fu annunciato, badai a posizionarmi rispettando i segni sul tappeto azzurro. Ricordo il sorriso del re Gustavo, il peso della medaglia e che nonostante tutte le prove, riuscii comunque a rompere il protocollo ,passando da una mano all’altra la medaglia per stringere la mano al re, come in un gioco di prestigio. E poi l’applauso, lo sguardo di Franca che aveva accanto Jacopo con mia nipote Mattea, e le espressioni orgogliose degli amici venuti a festeggiarmi.
Alla premiazione seguì la rituale cena al Municipio, alle 19 in punto. I Nobel erano seduti nella grande tavolata centrale con 99 coperti. A me avevano assegnato un posto accanto alla principessa Cristina, sorella del re, appassionata di archeologia, con la quale mi fu facile trovare un feeling. Alla mia sinistra, la principessa Vittoria, che i media dicevano colpita da anoressia; in verità mi sembrava tutt’altro che inappetente… si era gettata con voracità sulle portate, tanto che le offrii la metà del mio risotto e lei lo accettò.
Finita la cena i Nobel erano invitati a brindare con il re e la regina, uno alla volta, mentre gli altri commensali si davano alle danze in un apposito grande salone. Franca ed io pensavamo che fosse un saluto e via. Con nostra sorpresa invece, tanto il re che la regina ci trattennero, vollero sapere del nostro lavoro e dell’Italia, accennando perfino alla situazione politica di quel tempo. Il dialogo durò più del previsto. Lasciandoci, ci ripromettemmo di vederci ancora.
Quindi ci ritirammo in disparte attendendo, come vuole il rituale, che tutti i Nobel e le loro consorti ultimassero l’incontro, giacché allontanarsi non si poteva e oltretutto le uscite erano bloccate dal servizio di sicurezza.
Il maestro di cerimonia, che aveva intuito la nostra stanchezza, si avvicinò: "Seguitemi – disse - Il Nobel è uno splendido rito e di certo la maggiore delle onoreficienze al mondo, ma se lo si vive con eccessiva partecipazione ti può annientare.". Ci fece dunque passare per il corridoio che portava alle cucine. Transitammo fra stufe e tavoli ricolmi di piatti e stoviglie. I cuochi e i camerieri, alcuni evidentemente italiani, salutavano Franca e me con simpatia, ci acclamavano, alcuni battendo mestoli sulle pentole. A nostra volta frastornati, accennavamo a un saluto. Attraversammo un guardaroba con centinaia di cappotti, mantelli e pellicce. Afferrai un cappello da generale e me lo misi in capo. Franca me lo tolse di dosso: "Adesso non esagerare. Come arriviamo a casa, ti ammollo un sonnifero che ti farà dormire per almeno un paio di giorni. Cammina, che la festa è finalmente terminata.".