Il teatro di Franca Rame e Dario Fo

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[STAMPA] I nuovi Misteri di Fo

Il nuovo libro “Il Paese dei misteri buffi” (Guanda) scritto dal Premio Nobel Dario Fo insieme alla giornalista del Corriere della Sera Giuseppina Manin è stato presentato dagli autori mercoledì 18, a Palazzo Reale, in un incontro a margine della mostra ”Dario Fo a Milano – Lazzi Sberleffi Dipinti”.

leggi l'articolo di Ida Bozzi su ViviMilano.it

vivimilano.it

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Intervista a Franca Rame ad opera della studentessa Pina Vergara per una tesi sul ruolo educativo del teatro

 

Franca Rame, autrice-attrice teatrale, moglie e compagna professionale di Dario Fo, senatrice (dal 2006 al 2008).

 

Franca Rame: il nostro impegno sociale attraverso il veicolo teatro e il nostro amico Eduardo:Il teatro che faccia ridere o piangere deve far riflettere, denunciare, emancipare

 

P. V.: Per me è stato veramente educativo conoscere il vostro Operato: più persone “adulte” (gli stessi artisti), i “trampolini di lancio” ̶ direbbe Eduardo ̶ per i giovani (“nuovi cicli”) pensano e scorgono nel compromesso l’unica strada da percorrere per qualsiasi mestiere, come in quello teatrale. Non sono per niente d’accordo, anzi, soffro all’idea che si debba fare questo. Per me il compromesso è una serpe velenosa che distrugge i sogni e corrompe gli animi umani. Quindi, sapere che esistano persone come lei e suo marito che danno un esempio diverso e costruttivo per tutti, in primis, per noi giovani, i prossimi costruttori di civiltà, mi riscalda il cuore e non mi fa sentire sola e folle.

F. R.: La frase con la quale ha designato il compromesso mi colpisce, mi commuove, soprattutto se penso alle sfide grandi che voi giovani dovete affrontare oggi. Io e mio marito, sin dai tempi di Canzonissima e anche prima, abbiamo lottato a favore di un profondo cambiamento sociale: ci siamo occupati, come ben sa, della condizione della donna, degli operai. Le loro pessime condizioni di lavoro sono rimaste le stesse: insicurezza del lavoro, morti bianche mai ricordate come quelle dei soldati al fronte, 1170 nel 2011! I lavoratori italiani sono da anni e anni in lotta contro il “padrone”, contro la mafia, contro la casta politica fannullona e strapagata, disonesta … anni e anni di lotte in difesa della propria dignità.

Non accettate compromessi: voi giovani siete la nostra speranza per un mondo migliore, più sano e più vivibile.

P. V.: La vostra Drammaturgia si è sempre occupata della società, unendo storia-conoscenza-attualità: emblematico per me è il dialogo fra una “muliera” sicula (simbolo di una delle tre parche, allegoria della vita e della morte) e un giornalista inviato dal continente ̶ vostra scena andata in onda durante una puntata di Canzonissima come denuncia alla mafia, non a caso la donna (mafia) uccide il giornalista che non si fa i fatti suoi ̶ . Il vostro teatro non ha mai abbandonato l’uomo nelle sue battaglie quotidiane, fino ad arrivare in Senato con la sua nomina: si è occupata dello spreco del denaro pubblico, dell’inutilità della guerra e dei nostri militari in missione (divenuta belligerante, massacro e non più di pace), delle carceri italiane strapiene, invivibili e indignitose, dell’illegalità lavorativa per gli stessi precari in Parlamento (sfruttamento proprio all’interno dell’istituzione massima), dell’uranio impoverito, del problema politico RAI; ha lavorato al progetto “10 leggi per cambiare l’Italia”, ha seguito le Commissioni dell’Infanzia, dell’Uranio impoverito, dei Lavori pubblici e Comunicazione, Vigilanza RAI. Insomma, ha donato tutta se stessa, come in tutta la sua vita, per un miglioramento concreto della realtà attuale opprimente, asfittica, inumana. Mi dispiace molto che sia stata costretta (e sottolineo,costretta) a dimettersi proprio perché, vivendo la politica dall’interno, ha conosciuto sempre di più il famoso serpente compromesso ̶ di cui abbiamo parlato ̶ nei volti di tutti coloro che avrebbero dovuto difendere la dignità dei cittadini.

F. R.: Sì, purtroppo, con mio profondo dispiacere ho dovuto abbandonare il campo, come si direbbe nel gergo politico e sportivo. Ho rischiato di ammalarmi. Totale disinteresse. Nessuno ascolta nessuno. Mi sembrava di stare in un mondo a parte, lontano dalle vere problematiche degli italiani. No, non era il mio mondo: ho potuto combattere per il mio prossimo più con la mia professione, con il teatro che con la così detta “politica”. Ho dato le dimissioni dopo 19 mesi. Sono delusa e amareggiata. Continuerò a combattere per gli altri con il mio lavoro: il teatro ha la forza di scalfire ferri duri.

P. V.: Proprio come afferma August Boal “il teatro è uno degli strumenti mediante i quali si esercita l’attività politica […] il suo obiettivo non è acquietare gli spettatori , riportandoli all’equilibrio e persuadendoli ad accettare lo status quo, al contrario, è intensificare nel pubblico il desiderio di trasformazione”. Per l’appunto, la mia decisione di scrivere una tesi sul ruolo educativo del teatro è proprio perché credo con tutta me stessa nella formazione-trasformazione personale e dell’intero pubblico, grazie a questa grande scienza educativa, quale è l’arte teatrale. La mia sfida è quella di dimostrare che il teatro può essere una teoria-prassi educativa e formativa di fronte ad un periodo contemporaneo-postmoderno, lacerato da una forte crisi umana, esistenziale, culturale e civile: l’uomo è in balia del suo stesso individualismo e delle strategie di potere consumistiche (l’odierno deus ex machina). Siamo prigionieri delle nostre stesse idee su cui abbiamo fondato la società (il danaro è il metro di tutte le cose, i soldi ci sfamano). Il mondo è concentrato su se stesso e fa fatica ad entrare nella logica della solidarietà, del senso comunitario, della coscienza planetaria. Invano la natura e i poveri della Terra elevano il loro grido di disperazione di fronte all’indifferenza dei Paesi forti, dediti alla mercificazione dei pensieri, degli affetti, della stessa etica, dello stesso modus vivendi. Sono in auge l’egotismo e l’incomprensione di se stessi e dell’altro (alieno, diverso da me, ma a me simile nella condizione umana), la non-empatia (che come già scritto in tesi, amo definire dialogo fra due umanità che si specchiano). Allora, di fronte a tali carenze, si preoccupa il teatro di rispecchiare- specchiare l’essere umano e sociale, riflettendo le varie problematiche e inducendo ad una conoscenza radicale delle stesse, per una metamorfosi privata e pubblica. L’arte innalza ed eleva l’uomo, lo riporta alla sua condizione specificatamente umana. Il teatro è l’arte sublime che porta al piacere e al contempo alla riflessione: se anche un solo attore o regista crede nella metamorfosi individuale e collettiva che il teatro potrebbe attuare, attraverso la riflessione per e sulla realtà, questa si avvera.

Un teatro non fine a se stesso, ma una forma di comunicazione diretta che ha lo scopo di “coscientizzare” il pubblico e noi stessi, proprio alla maniera dei giullari.

F. R.: Sono pienamente d’accordo con la sua accorta analisi critica sia della società civile e contemporanea, sia del vero ruolo e dell’autentica essenza del teatro. Mi colpisce, fra l’altro, che lo abbia definito una scienza: è giusto, il teatro è una disciplina con i suoi strumenti teorici e pratici di indagine della realtà, è una disciplina seria e, al contempo, ludica per chi lo fa ed è la forma più alta di comunicazione umana.

L’arte va rivalutata, soprattutto in questo periodo di forte decadenza e di disumanità.

Il problema grande è che il teatro è spesso nelle mani di politici e di persone che di arte non ne conoscono nemmeno l’ombra. Come qualsiasi professionista, un attore studia e fa pratica per appropriasi del suo mestiere. Fuggite dai raccomandati, appoggiate e applaudite i giovani preparati e appassionati, ricchi di talento. Il teatro che faccia ridere o piangere come anche lei dice, deve far riflettere, denunciare, emancipare. È uno fra gli strumenti istituzionali più consoni alla formazione di una coscienza etica individuale e collettiva. L’attore infatti ha il preciso compito di credere nell’uomo e, per farlo, deve amarlo, coltivando un’arte non compromessa, ma alimentata dalla passione per un’esistenza e un senso umani migliori.

Proprio come il giullare (che è il giornale del popolo), il teatro restituisce la dignità agli oppressi.

P. V.: Nell’analizzare il ruolo educativo del teatro nei confronti di una realtà contemporanea fortemente in crisi e necessitante di una salvezza imminente (prima parte della tesi) e nella descrizione delle categorie “eduardiane” (seconda parte della tesi), ho attraversato l’intero scritto con cenni-richiami alle vostre Opere “Mistero buffo”, “Fabulazzo osceno”, “Sesso? Grazie, tanto per gradire” e il monologo “Lo stupro”. Per quanto riguarda le prime due Drammaturgie mi ha colpito la figura del giullare, colui che attraverso l’oscenità coscientizza e riporta la primavera fra gli uomini, cioè la dignità che è categoria incarnante tutte le vostre Opere: rottura con le logiche del potere attraverso lo strumento sarcastico dell’ironia che da lama tagliente scioglie le briglie della schiavitù umana. Mi ha commosso e non lo dimenticherò mai il dialogo fra la morte e il matto (il popolo): solo il popolo, l’umile, l’oppresso, l’uomo vero riescono a far innamorare la morte, a conversarci, perché non la temono. Non rifiutano la verità della morte, anzi danzano con essa, facendoci l’amore: grazie alla consapevolezza-coscientizzazione del , riescono a sconfiggere la pseudo-morte quotidiana (quella dei potenti sulla terra, succubi di loro stessi, i finti normali). Per quanto riguarda l’altra Opera “Sesso? Grazie,tanto per gradire” (ripresa da “Lo Zen e l’arte di scopare” di vostro figlio Jacopo) e il monologo, trovo conferma al mio pensiero riguardo all’estrema importanza della sessualità, ad una conoscenza profonda del proprio e altrui corpo, alla rottura con i tabù, appositamente costruiti per tenerci imbrigliati nell’ignoranza, nella paura e in una cultura fallologocentrica. Solo amando e facendo l’amore con noi stessi (metaforicamente) e con gli altri (conoscenza profonda dell’altro senza reticenze pseudo-culturali) possiamo diventare meno criminali e più salvatori, cioè portatori di pace, in quanto rappacificati con noi stessi dall’interno. Da non dimenticare poi l’importanza della parità dei sessi e di una donna rivalutata nella sua essenza e non come strumento da mercificare a proprio soddisfacimento orgasmico: effetto di un malessere interiore radicato nell’uomo (anch’egli vittima di se stesso e delle carenze culturali).

F. R.: Mi piacerebbe rispondere con il pensiero espresso in un’intervista da Dario: il problema della disumanizzazione, come lei più volte scrive, risiede nella carenza culturale. Ci anestetizzano attraverso i sofisticati mass-media e ci de-culturano, ci privano della vera cultura. Assistiamo ad un abbassamento dei valori: ubriacano di falsità e di ipocrisia i bambini fin dall’asilo sul problema della moralità, del peccato (sulle cose che si fanno e non si fanno), sul problema della sensualità (tutto è sporco) e così naturalmente nasce un’umanità “gnucca”, ottusa, piena di complessi. Gli antichi, al contrario nostro, erano molto preoccupati della cultura dei bambini e addirittura dello sviluppo del loro senso umoristico: avevano capito che un bambino che ride (capendo del perché ride dal momento che la sua intelligenza ha trovato la sua chiave di satira e di grottesco nelle situazioni) è un bambino che sta meglio, è più aperto e propenso ad accettare gli altri e soprattutto ha una visione della vita che non è meccanica, fatta di regole, ma bensì di invenzione, di fantasie, di volontà di immaginare e ricostruire il mondo che è intorno, vederlo con i propri occhi. Se uno non impara a comprendere il valore della bellezza rimane sempre un mediocre, soprattutto se non si confronta sulla stessa con gli altri e non riuscirà a sceglierla, intuirla e a farla propria. Il problema non è la “bellezza” in sé ma di poterla godere, indicare, dipingere, raccontare, esaltare, vivere. Ed è sempre questione di cultura. A quanto detto da Dario, vorrei aggiungere quanto sia effettivamente suggestiva l’immagine della morte che fa l’amore con il popolo, cioè di un effettivo di-svelamento delle sovrastrutture e infrastrutture umane: il giullare e la morte sono simboli dell’opportunità di mettersi a nudo, scovare il proprio intimo e la propria maschera esteriore per affrancarsi dalle logiche di potere esterno (retaggi culturali, i fatidici tabù, le menzogne sociali e consumistiche) che hanno imbalsamato la nostra essenza umana e la nostra corporeità. Per quanto concerne la donna: ho sempre lottato per l’emancipazione femminile, per la parità dei sessi, per uno scambio dialogico fra uomo e donna senza prevaricazioni, menzogne, soprusi. Le carenze sociali, l’abbrutimento culturale e civile, la non conoscenza di sé, il non amore di sé e del proprio corpo, le sofferenze interiori non risolte conducono alla violenza. Il teatro non può tacere, anzi deve far aprire gli occhi, per questo abbiamo sentito l’esigenza di mettere in scena le ultime due Opere che lei ha citato.

P. V.: So che siete stati grandi amici di Eduardo, avevate pensato anche di lavorare insieme e addirittura Dario ha rischiato di finire sotto una macchina mentre passeggiava con lui. A parte ciò, ho scelto insieme al mio professore e relatore Alessandro Mariani di scrivere una tesi sul suo Operato, non solo poiché di radici partenopee come me, ma anche perché ha dimostrato che il teatro dialettale è patrimonio culturale nazionale ̶ e questo lo avete dimostrato anche voi, fra l’altro Dario ha definito la lingua teatrale eduardiana un vero e proprio grammelot ̶ e perché mediante le sue Opere, esprimenti problematiche universali, si è sempre occupato di una coscientizzazione civile e sociale, affinché gli uomini si approprino della loro natura specificatamente umana. Lei che ne pensa?

F. R.: Eduardo era un uomo di alto livello e in questo trovo d’accordo anche Dario, le sue Opere sono espressione di una forte volontà di metamorfosi umana. Desiderava un mondo pieno di coscienza civile, di solidarietà, di dialogo, di comprensione reciproca. Si potrebbe parlare delle ore su questo grande autore-attore-regista-senatore che ha dedicato tutta la sua esistenza al teatro sia come forma di diletto ma anche e soprattutto come delucidazione dei paradossi umani, delle inciviltà: lavoro costante per una superamento delle barbarie umane.

P. V.: Sarebbe per me un sogno occuparmi professionalmente, seriamente e in maniera ludica del teatro (mia più grande passione, il mio vero amore) e delle varie espressioni artistiche (scrittura, poesia, musica) unendole alla formazione-educazione. Anche lei mi consiglia di lasciar perdere perché quello dell’arte è un “brutto mondo”, pieno di compromessi o mi sostiene in questa mia utopia (concreta, però): migliorare-coscientizzare-umanizzare me stessa e la realtà attraverso l’arte e soprattutto il teatro.

F. R.: Credo che ognuno di noi debba inseguire le proprie passioni, i propri sogni e sono contenta del suo credere in un teatro formativo, dedito ai problemi sociali, agli altri, prima che a se stessi. Sono felice perché giovani come lei possano continuare il nostro cammino di miglioramento personale e collettivo. Non abbia paura, non si lasci abbattere dalle sconfitte, ma creda fermamente nei suoi progetti e vedrà che riuscirà a farsi capire, ascoltare. Dario ed io, siamo stati censurati, abbiamo abbandonato la trasmissione più vista della Rai, “Canzonissima”, perché non accettavamo i tagli che la dirigenza Rai voleva imporci. Siamo stati denunciati dalla Rai con richiesta di miliardi di danni, finita per fortuna in nulla. Abbiamo avuto pesanti minacce (mio figlio Jacopo a sei anni andava a scuola scortato dalla polizia), bombe alla Palazzina Liberty dove recitavamo. Io stessa sono stata sequestrata, caricata su un camioncino e subìto torture e violenza.

Ci siamo sempre rizzati in piedi anche quando eravamo in ginocchio, disperati, ma non abbiamo mai smesso di cercare di cambiare le condizioni degli sfruttati, dei diseredati, di sciogliere i lacci della schiavitù umana in tutte le sue sembianze. Sono con lei!

 

 

 

 

 

 

 

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[VIDEO] MICHELE LU LANZONE by Dario Fo & Franca Rame

 "MICHELE LU LANZONE"
A Monologue Written by Dario Fo & Franca Rame
Devised with the company
Directed by Filomena Campus
Assistant Director Michael Lattin-Rawstrone
Projections by Sdna
Light design by Steve Owens
 
Clifftown Theatre - Southend (UK) March 2012
East15 - University of Essex
 
Production, filming and editing by MariposaVideo
 
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[STAMPA] Anteprima a Bologna per A casa non si torna. Il film sulle donne con lavori maschili

 
Ad accompagnare la presentazione del documentario sulle lavoratrici alle prese con mansioni faticose (guidatrici di tir, operaie edili, operatrici ecologiche, ecc) ci saranno i registi Lara Rongoni e Giangiacomo De Stefani assieme al segretario Cgil, Susanna Camusso
 
a casa non si tornaSono italiane, ma non solo. Il mattino si svegliano prestissimo e non hanno neanche tempo di guardarsi allo specchio. Ognuna è attesa sul posto di lavoro, che sia a svuotare cassonetti o in un cantiere edile, alla guida di un tir o a posizione i fari su un set. Sono le protagoniste “coraggiose” del documentario A casa non si torna – Storie di donne che svolgono lavori maschili, quelle che si sono sentite apostrofare con “commenti allucinanti” dagli uomini e che, una volta esaurito il proprio turno, vanno all’asilo a prendere i figli “perché questa è una bella vita”.
 
Il lungometraggio di Lara Rongoni e Giangiacomo De Stefano (la produzione è della società imolese Sonne Film) sarà proiettato in anteprima “pubblica” (il documentario è già stato visto sul web, n.d.r.) a Bologna domani, 4 aprile, al cinema Europa di via Pietralata 55 alla presenza di Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, il sindacato che insieme alla Fondazione Argentina Bonetti Altobelli promuove l’evento. Insieme alla leader dell’organizzazione dei lavoratori, saranno presenti il sindaco di Bologna Virginio Merola e il segretario generale dell’Emilia Romagna Vincenzo Colla, insieme per tenere a battesimo un percorso che condurrà, nel giro di poco tempo, a un’assemblea regionale declinata al femminile.
 
I lavori ‘faticosi’, oggi, come nel passato sono considerati lavori preclusi alle donne… Ma cosa mi raccontate? Le donne li hanno sempre svolti, ma senza che nessuno li riconoscesse”, dice l’attrice e femminista Franca Rame che, tracciando le linee dell’emancipazione femminile dall’Ottocento a oggi, accompagna con la sua voce l’inizio e la fine del documentario, della durata di sessanta minuti. “La capocantiere, la camionista, l’elettricista e tanti altri ritratti di donne sul posto di lavoro”, aggiungono Rongoni e De Stefano, “testimoniano le difficoltà, ma anche l’orgoglio della propria condizione. Nulla è trasformato in esibizionismo e neanche in autocommiserazione, ma è un racconto che consente di capire come queste donne affrontino la vita”.
 
Finanziato dalla Film Commission Emilia Romagna e con il contributo di coordinamento donne Spi Bologna, Cgil nazionale, Cgil di Imola e Cgil regionale, Fondazione Argentina Bonetti Altobelli e Udi (Unione donne in Italia), il documentario è disponibile anche sul sito di ilfattoquotidiano.it dallo scorso 8 marzo “per ricordare le conquiste sociali delle donne, ma anche le discriminazioni che ancora subiscono soprattutto nel mondo del lavoro”.
 
Perché, prosegue la presentazione del film, si vive “in una società disegnata da uomini” per quanto emerga “la volontà di non arrendersi e di vivere la vita felicemente anche attraverso le difficoltà”. Ecco allora le storie di Maria, Licia, Michela, Simonetta, Latifa e Reina, sei voci e sei vissuti “che, nel silenzio generale, continuano a superare i limiti imposti da un malinteso senso comune”.
 
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[STAMPA] "Mistero Buffo" rinviato

Rinviato lo spettacolo previsto al Gran Teatro Geox di Padova sabato 10 marzo.
 
E’ con grande dispiacere che ZED! annuncia lo spostamento dello spettacolo Mistero Buffo, previsto al Gran Teatro Geox sabato 10 marzo.
La Compagnia ha infatti comunicato che, a causa di un'improvvisa bronchite che ha colpito Dario Fo, lo spettacolo, che stava ormai andando verso il tutto esaurito, non potrà purtroppo andare in scena nella data prevista per questo fine settimana.
 
Pur non essendo in grado in questo momento di assumerci ulteriori impegni è forte il desiderio della compagnia di recuperare il prima possibile lo spettacolo che siamo obbligati a disdire”: questo il comunicato ufficiale emesso dal Maestro Dario Fo e dalla signora Franca Rame.
 
Si sta lavorando per identificare una possibile nuova data per il recupero dell'iniziativa.
I biglietti acquistati rimarranno pertanto validi con le stesse modalità di fruizione.
Per maggiori informazioni www.granteatrogeox.com - www.zedlive.com
Infoline 049/8644888 – Info Gran Teatro Geox 049 09 94 614
 
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[STAMPA] Franca Rame Project

franca rameIn occasione della festa della donna viene presentato Franca Rame Project a cura di Dale Zaccaria al Circolo Belleville di Roma. Belleville è una quartiere di Parigi noto per essere una zona operaia multiculturale e vignarola con questo spirito i ragazzi di belleville a Roma hanno costituito un centro culturale e palco di giovani cantautori con numerose attività ludico artistiche e teatrali. Franca Rame Project è uno spettacolo denuncia riguardo la violenza che il potere commise su una grandissima artista quale Franca Rame il 9 Marzo del 1973 con spezzoni video della stessa Franca Rame da "Tutta casa letto e chiesa" del 1977. Memoria, cronaca, poesia, teatro e video si commistionano per riflettere sul rapporto violenza e potere ancora attuale oggi nei confronti delle donne. L´ingresso è con tessera Arci ore 22,00 in G.Albimonte 10/B a Roma.
 
fonte: unevento.it
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[STAMPA] ''Una donna sola'' di Franca Rame con Caterina Boschi al Teatro Nuovo Sentiero

una donna sola di franca rameGiovedì 8 marzo 2012  alle ore 21.15 in occasione della Festa della Donna al Teatro Nuovo Sentiero la Compagnia Giardini dell'Arte presenta "Una donna sola" di Franca Rame con Caterina Boschi per la regia di Marco Lombardi. Il monologo, caratterizzato da una forte dose di comicità ed ironia, fa parte di una raccolta di monologhi satirici ("Tutta casa, letto e chiesa", 1977) sulla condizione della donna, scritti e messi in scena da Dario Fo e Franca Rame. “Una donna sola” – ovvero Mio marito non mi fa mancar niente! - viene rappresentato dalla Compagnia Giardini dell’Arte a partire dal 2009, spostandosi dal teatro all’agriturismo, dalla messa in scena vera e propria alla cena con spettacolo, singolarmente oppure al fianco di un altro atto unico (nello spettacolo Volevo Solo Parlare Con Qualcuno). Nel 2010 vince il Premio Migliore Interpretazione Femminile al Concorso Regionale “di QUARCONIA” (Vinci, FI). Per far ridere. E poi riflettere. Per informazioni: www.teatronuovosentiero.com
 
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[STAMPA] "Semprevivo Mistero Buffo" intervista a Dario Fo e Franca Rame

Il 10 marzo a Padova a 40 anni dal debutto. Franca Rame: "Ma ogni rappresentazione è diversa dall'altra"

PADOVA. “A Padova veniamo sempre volentieri, se non altro per mangiare il baccalà». Dario Fo e Franca Rame la mettono sul culinario, ma in realtà il legame con la città è profondo. «Abbiamo molti amici - dice Franca Rame - anche se alcuni non li vediamo da tempo, poi è la patria del nostro Ruzante». E il riferimento a Ruzante non è casuale, perché in fondo “Mistero buffo”, che i due attori riporteranno in scena a Padova il 10 marzo al Gran Teatro Geox, a 40 anni di distanza dalla prima volta, è uno spettacolo dal clima ruzantiano, sia nel linguaggio sia nei temi. E non a caso uno dei primi ad apprezzarlo fu proprio uno studioso di Ruzante come Gianfranco Folena e Dario Fo ancora oggi ama citarlo: «Lo spettacolo nasceva da molto studio, dai testi dei primi studiosi di folklore e da quelli degli studiosi di linguistica come Folena che scrisse, allora, che guardando Mistero Buffo si poteva ottenere un’idea del tutto credibile di cosa fosse il teatro satirico dei giullari medioevali». Un bel complimento, non c’è che dire, per un attore col vizio della scrittura e della storia. «La passione della storia – dice Franca Rame - l’abbiamo avuta sempre. A ben vedere quasi tutti i nostri spettacoli, anche quelli di maggiore attualità partono dalla storia».
 
Per Dario Fo, invece, il legame precede il suo essere attore. «Ho letto molto per conto mio – dice – ma la prima spinta è venuta dai miei insegnanti all’Accademia di Brera, che facevano grandissime lezioni parlandomi non solo del Duomo di Modena, ma anche del popolo che lo aveva costruito, delle sue rivolte, delle sue sofferenze». E questa idea di storia popolare che attraverso i secoli arriva all’attualità pervade tutti i testi di Fo e inevitabilmente anche “Mistero buffo”, anche se Fo dice che non è colpa sua se adesso quando parla del Miracolo di Lazzaro il pubblico comincia a pensare a Silvio Berlusconi. Il fatto è – dice lui – che la politica si mette sempre in mezzo.
 
“Mistero buffo” è probabilmente il testo più famoso di Dario Fo, non sono pochi a ritenere che sia stato proprio quello spettacolo a determinare l’assegnazione del Nobel. Nacque nell’estate del 1968, una data simbolicamente forte. «Dario – dice Franca Rame – leggeva in quel periodo i vangeli apocrifi, che furono i veri materiali di partenza del lavoro. Trovava che fossero testi straordinari, perché erano letteratura popolare, raccontavano in modo semplice cose che valevano anche per noi». Ma la svolta per la scrittura del testo venne quando Dario Fo trovò il linguaggio, il grammelot «Dario – dice ancora Franca Rame – lo usò per il primo testo di Mistero buffo che ha scritto, quello dedicato a Bonifacio VIII. Era un impasto di dialetti, con termini latini ed espressioni onomatopeiche che trasmetteva una grande comicità». Sì perché forse va chiarito che in realtà il Grammelot Dario Fo se lo è inventato. «Non potevo fare altrimenti – racconta – non esistevano registrazioni del cinquecento, avevo letto che i giullari medievali lo usavano, poi ho trovato in Molière un esempio ed il resto l’ho immaginato. Del resto il grammelot è una invenzione continua, cambia ogni sera è impossibile ripeterlo».
 
Dopo la dissacrante satira su Bonifacio, che fece imbestialire più di un canonico, vennero gli altri pezzi di Mistero Buffo. «In ordine – ricorda ancora Franca Rame – sono venute le Nozze di Cana, la Resurrezione di Lazzaro, la fame dello Zanni e quindi Maria alla croce che non era un brano comico. Le prime volte lo faceva Dario con un velo da donna poi insistette perché lo facessi io. Era un brano molto bello, ma anche molto difficile che racconta la ribellione di Maria contro Dio». Ma quello che emerge dai ricordi, raccontati con voce rauca ma ancora piena di energia, è soprattutto il modo in cui lo spettacolo è nato. Dario Fo è convinto che «un’opera teatrale non dovrebbe apparire piacevole alla lettura: dovrebbe scoprire i suoi valori solo sul palcoscenico» e per questo ritiene che in fondo Franca Rame sia una coautrice del testo: «Dario si è sempre fidato del mio senso del ritmo teatrale, eredità della mia famiglia di teatranti, e così prima di andare in scena ha sempre chiesto a me cosa cambiare e cosa lasciare».
 
Perché Mistero Buffo è stato quasi involontariamente un “work in progress” arricchendosi di nuovi testi, di altre variazioni: «Siamo arrivati una volta a Roma – dice Dario Fo – a metter in scena in cinque sere diverse, cinque diversi spettacoli, senza ripetere un solo brano. Ed in realtà avremmo anche potuto andare avanti, solo che era uno sforzo mostruoso e ci siamo fermati, ma se dovessimo farlo oggi sarebbero almeno dieci».
 
Eppure ci sono anche i pezzi classici e immancabili, per esempio la fame dello Zanni, che non possono non rivivere anche in questa edizione, che ha cominciato a girare per l’Italia. Non solo, Dario e Franca continuano a rivendicare la loro autonomia da un testo che li ha accompagnati per una gran parte della loro vita teatrale. Raccontano che il loro piacere è massimo quando nasce in pieno spettacolo una situazione nuova, quando il copione si scardina. Perché anche se ormai gli anni sulle spalle sono tanti, la passione per il lavoro è la stessa e recitare all’improvviso, come i vecchi maestri dell’arte, rimane – dicono loro - il massimo piacere. «In realtà – chiude Dario Fo – non credo di aver mai fatto due Mistero Buffo uguali, perché uno degli autori è il pubblico. A seconda di come risponde si modificano le situazioni, le battute, è qualcosa che nasce ogni sera sulla scena, ancora oggi, dopo tutti questi anni».
 
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Mamma Togni

Un meraviglioso monologo di Franca Rame, poco conosciuto ma bellissimo, rappresentato per la prima volta in una grande piazza di Pavia il 25 aprile del 1971.
Il racconto è stato ricavato da una registrazione su nastro, eseguita dalla protagonista della storia, e la protagonista è una donna, Mamma Togni. Oggi chissà che polemiche scatenerebbe Mamma Togni, tutti parlerebbero di scorrettezza, di mancanza di dialogo, di democrazia… ma leggete il brano e ditemi, in tutta sincerità, se questo racconto non vi suscita commozione e una voglia di uscire urlando: non siamo tutti morti!!!
 
Mamma Togni
“Mamma Togni…. Mamma Togni, i fascisti sono in piazza su a Monte Beccarla, vogliono parlare in piazza!” Due ragazzi da in fondo alle scale i sont vegnüd  a ciamàmm…”
“Chi l’è che parla? Chi è sto fascista?”
“Servello”.
“’Sto bastardo! Andùma… andiamo! ‘Spetta che prendo il bastone… che ci ho la caviglia gonfia e mi devo appoggiare”.
Adesso ho capito perché i sont vegnüd quei due compagni del partito, volevano essere sicuri che nessuno era venuto ad avvisarmi… Dicono: “Sei vecchia, non metterti in mezzo… ti può far male… e poi soprattutto, non farti strumentalizzare. Stai a casa… non ti mettere in mezzo!. Andùma, andùma, per i fascisti non sono mai vecchia! E cos’è che mi vengono a dire che mi faccio strumentalizzare? Contro i fascisti? ‘Sti neri bastardi che hanno il coraggio di venire a sputare discorsi di merda in una piazza dove hanno ammazzato quattordici ragazzi davanti alle loro madri, Andùma, Andùma!!
Quando sono arrivata su alla piazza, intorno al palco c’erano quattro gatti e tutt’intorno i baschi neri, carabinieri. Io ho detto ai ragazzi che mi accompagnavano: “Voi fermi qui, guai chi si muove”.
“Ma no, manma Togni, veniamo con te”. 
“No, zitti, e fermi lì, sennò torno indietro. Vado da sola che a me non mi toccano”.
Vado zupìn zupètta col mio bastone… arrivo sotto il palco… “Permesso, permesso…” Sopra, ‘taccato al microfono che pareva che se lo mangiava, c’era il Servello-bastardo che vociava e sbracciava come un vigile all’incrocio nell’ora di traffico. 
Io col bastone gli do un colpo sulla canna del microfono che la testa del microfono gli sbarlòcca in bocca da fargli crodare tutti i denti, e poi mi metto a cantare:
Fascisti bastardi e neri 
ci avete scannati ieri
di nuovo siete qua! 
 
Quello si ferma di sbragare al microfono, el me guarda e un po’ riattacca. Io canto ancora, lui si impappina. Dal fondo della piazza sotto i portici cantano anche i ragazzi! Poi col bastone gli mollo una stangata proprio sul ginocchio che lui, il Servello, s’è messo a sbragare come un gatto quando lo castrano! 
Il capitano dei carabinieri mi viene vicino, mi prende per il braccio e mi dice: “Ma signora, è impazzita? Che fa, ma non lo sa che è proibito cantare? Disturba il comizio!” 
“No, caro il mio tenente, - l’ho degradato subito, - è il comizio che disturba me, perché questi qua sono gli assassini di appena l’altroieri, quelli che qui in questa piazza hanno accoppato come cani dei ragazzi che non gli avevano fatto niente… per rappresaglia”.
“Va bene, va bene, ma adesso… questi hanno l’autorizzazione…”
“L’autorizzazione da chi, dalle mamme dei fucilati? Ehi, gente, mamme di Monte Beccarla, vi hanno chiesto l’autorizzazione per venire qui a fare ‘sta porcata? Dico a voi! Venite fuori da sotto il portico… su.. stremì, fœra! Parlì!”
“La prego signora, la smetta altrimenti sarò costretto a portarla via di peso”.
“Ah, sì? Provi a mettermi una mano addosso e io casco giù per terra… faccio la svenuta e lüe l deve far venir qui a sollevarmi almeno dieci uomini che io sono novanta chili… all’ombra! L’avverto”
“Se è per quello, posso disporre, - mi fa il capitano, - posso disporre anche di settanta uomini”.
“Settanta uomini? Bravo, e lei per far parlare ‘sto bastardo schifoso assassino viene qui con la difesa di settanta uomini! Ma guardi che qui le persone oneste mica hanno bisogno di esser protette se i voeren parlà… Noi comunisti qui parliamo a tutte le ore e senza gendarmi! Il fatto è che voi ce lo imponete con la forza ‘sta faccia di merda del Servello”.
“Non dica così, è un senatore”.
“Senatore? Senatore della Repubblica nata dalla Resistenza? Donne, ehi gente, avete sentito a che cosa son serviti i nostri figli, i nostri uomini accoppati morti ammazzati per la liberazione? A fare una Repubblica con il Senato dove ci vadano a sbragarsi ancora ‘sti figli di puttana…”
“Adesso basta signora, sono costretto ad allontanarla”.
“No, se lei è un uomo onesto, lei allontana quel bastardo, sennò lo allontano io a bastonate. Perché se voi avete il fegato e il cuore di semolino bollito… parlo a voi donne e uomini di Monte Beccarla, io vi dico che non ci sto a farmi insultare e a fa insultà el me fiò che l’hanno ammazzato proprio come se fosse l’altroieri e mio marito che nel ’23 a bastonate gli stessi fascisti gli hanno fatto vomitare i polmoni!” E gridavo, e non so più che cosa ho detto. Fatto sta che dal fondo sono venuti avanti due o tre uomini e poi qualche donna… e i ragazzi… che io gli avevo detto di non muoversi…. E allora ‘sti baschi neri non gli è sembrato vero… Sono partiti a fare la carica contro i ragazzi e giù a pestare con una rabbia, senza che ci fosse ragione. E il capitano e due guardie che mi spingevano via a spintoni che ormai nella confusione nessuno ci faceva più caso, e mi  hanno fatto dei lividi alle spalle e alla schiena che ce li ho ancora adesso… ma in quel momento manco li sentivo… Ero preoccupata per quei ragazzi… Gridavo: “basta!! Carogne!! Maledetti!!! Cosa c’entrano loro, cosa vi hanno fatto? Perché ve la prendete con loro? Nazisti! Pi esse esse, pi esse esse!” 
Ce n’erano tre o quattro che erano finiti per terra, di ragazzi, con la testa che sanguinava e li prendevano lo stesso a calci. Poi, come sacchi li hanno sbattuti dentro una camionetta, tutti e undici. 
“Dove li portano? Cari i miei fieu… Giù alla caserma… Andùma… Una macchina… portém giò in caserma… presto… E viàlter andate a chiamare qualche avvocato dei nostri…”
Arrivo giù, davanti alla caserma, e lì, con uno del partito, un assessore, cerchiamo di convincere il maresciallo a lasciarci parlare con il questore, con qualcuno, per dirgli come erano andate le cose. Di botto il maresciallo fa finta come se qualcuno gli ha dato un pugno e cade per terra facendo lo svenuto! Io ero lì a un metro, nessuno lo aveva toccato. Ma come una valanga arrivano una cinquantina di baschi neri e giù botte da orbi sulla testa dell’assessore che crodava sangue dappertutto… Io mi metto a gridare: “Porci, l’avete combinata, e tu figlio di una cagna d’un maresciallo, che hai fatto la commedia…. Assassini… fascisti!” Mi prendono di peso, m’impacchettano e mi portano dentro.
Processo per direttissima. 
Intanto che mi facevano le generalità sento la gente giù in piazza, i compagni che gridavano: “Fuori! Fuori mamma Togni… fuori mamma Togni! E io a sentire come mi volevano bene… ero così contenta… che ci avrei fatto la firma a farmi arrestare tutti i giorni! E il commissario che era appena entrato, che non s’era accorto che io ero lì coperta dalla porta, ha detto: “Chi è quello stronzo che sbattuto dentro la Togni? Ma cosa gli è venuto in mente? Ci combinava meno casino se arrestava il presidente della Repubblica in persona!!” E io come se niente fosse ho cominciato a cantare come fra me medesima: 
Bastardi fascisti neri
Ci avete scannati ieri 
Di nuovo siete qua!
Tutti zitti sono usciti quasi in punta di piedi, che non ce la facevano a stare lì. L’unico che è rimasto era un maresciallo piuttosto giovane che mi guardava con un mezzo sorriso come intimorito.
“Io, - mi fa, - a lei la conosco signora, perché il mio papà era comandante partigiano sulle montagne della Liguria”.
“Era nella terza formazione garibaldina ligure?”
“Sì”
“Ah, quella dove c’era il Lazagna? E come si chiamava tuo padre?”
“Mirko… Mirko era il suo nome di battaglia”. 
“Ma è morto il Mirko, lo hanno fucilato!...”
“Sì, è così… io avevo solo tre anni quando l’hanno ammazzato”.
“Era bravo tuo padre, bravo partigiano il Mirko… E tu sei entrato nei carabinieri? Bravo! Ti sei messo il vestito della festa per i padroni!”
Ha abbassato gli occhi, è diventato bianco… o forse m’è sembrato… che in quel mestiere lì ci vien la pelle col color fisso. Be’, poi il processo è stato tutto da ridere. Il giudice era preoccupato di sbolognarmi via, di tirare dentro i ragazzi, di incastrarli da soli, soltanto loro, faceva fin pena. 
“Lei signora, si è certamente trovata lì nella piazza per caso…. Vero? Passava… ad ogni modo, - cercava d’aiutarmi, mi dava l’imbeccata, - quel colpo di bastone sul microfono e sul ginocchio del senatore del Msi è stato del tutto fortuito….”
“No, no, che fortuito! Glielo ho dato proprio giusto, di volontà, che ce l’avrei dato volentieri anche in testa, che la prossima volta gliela spacco la testa, se viene ancora, ‘sto maiale d’un fascista”.
“Ma la prego non si esprima così… Capisco che lei è sconvolta….”
“No, no, io sono calma!”
“No, lei è sconvolta, come era certamente sconvolta quando ha gridato porci e fascisti ai poliziotti e ha così eccitato quegli scalmanati di ragazzi!”
“No, prima di tutto scalmanati erano i poliziotti e non i ragazzi, e poi ci hanno una strana maniera di fermare la gente quei poliziotti lì… a calci e a botte in testa, come se giocassero alla lippa!”
“Va bene, d’accordo, ma il fatto di gridare fascisti porci lo sa che è reato?”
“Certo che lo so… Al tempo che eravamo in montagna, quelli che li sbattevano contro il muro, crepavano convinti che dopo la liberazione, quelli che li stavano ammazzando non ci sarebbero stati più… e invece sono lì tutti a comandare i corpi speciali della polizia. Io li chiamavo porci fascisti allora e adesso li chiamo ancora porci e fascisti!”
El giudice sbianchiva... S’impappinava, ma io avevo capito che l’unico mezzo per tirar fuori gli undici ragazzi era quello di pestare forte io. A me non ce la facevano a condannarmi, si sputtanavano troppo. E così hanno dovuto sbattere all’aria il processo e lasciarli liberi tutti… almeno per adesso.
Che festa quando siamo venuti fuori, tutta la gente, i compagni che ci baciavano... e canzoni. Mamma Togni di qua, Mamma Togni di là… e chi mi tirava per la manica e chi mi salutava col pugno chiuso. Che bello, pareva come la liberazione… una festa! Peccato che non ci sia qui il mio ragazzo, mio figlio a vedere ‘sta festa. 
“Mamma, mamma, se io non torno, tu resti coi compagni finché finisce, tu resti con loro”
“Sì, caro, io resto”
E come facevo a lasciarli! Io facevo l’infermiera, ero diplomata… senza vantarmi ero brava. Avevo da curare fino a cinquanta feriti nella mia infermeria. Mi ricordo quando c’è stato il rastrellamento dei mongoli… volevano che io me la squagliavo in ospedale… che m’avevano trovato un posto, ma io, piuttosto crepare… mi son presa i miei trentadue ragazzi feriti e pasin pasin… Quello zoppo s’aiutava con quello con l’occhio tappato, quello con la ferita nella pancia lo portavano in barella due che erano feriti di striscio alla testa…. Sembravamo la carovana dei disperati, ma andavamo avanti e con me si sono salvati, li ho salvati tutti. Il guaio era trovare da mangiare, mangiare per trentadue e ogni giorno… Io li sistemavo in una cascina o sotto un ponte e poi andavo alla cerca. Casa per casa. E dappertutto, ‘sti contadini, ‘sti montanari, con tutto che non avevano quasi più niente, si tiravano via la roba dalla bocca per aiutarci… stracciavano le lenzuola per darmi delle bende per i feriti… lenzuola belle, di corredo. Invece capitava che magari andavo a chiedere in qualche famiglia di sfollati, gente benestante, dentro le villette, e quelli dicevano: “No, non possiamo dare niente”. E allora io tiravo fuori di botto la mia P38 quindici colpi e gliela picchiavo sotto il naso e gridavo: “Visto che sei così taccagno, allora sputa fuori tutto quello che ti chiedo, sennò ti ammazzo, pidocchio! E vergognati, che ‘sti ragazzi muoiono anche per te!”
Sì, ho fatto anche delle rapine per salvare quei ragazzi… i miei ragazzi. C’è qualcosa da dire? E lo farei ancora oggi. I miei ragazzi… ero la loro mamma… mamma Togni, guai a chi toccava mamma Togni. L’Americano, il comandante diceva: “A mamma Togni non si dice mai di no!” 
E tutti mi ubbidivano!
Quando quel giorno di primavera del ’44 mio figlio era andato giù che dovevamo prendere la caserma dei briganti neri, dopo un’ora vedo tornare il Ciro, bianco, che mi dice: 
“L’hanno ferito, tuo figlio è ferito…”
“Fermo lì, guardami Ciro, io non piango, non grido, guardami in faccia, io non piango… E’ morto vero? Lo so che è morto”.
“Sì”.
Me l’hanno portato su in braccio, in due. 
Mi sono messa seduta e me l’hanno messo sulle ginocchia, aveva un buco piccolo qui, sul collo. Poi i compagni me l’hanno portato via… l’hanno portato sotto il portico.
Io sono andata dentro nello stanzone dove c’erano tutti i miei ragazzi feriti e gli ho detto: “Fieui, ragazzi, mio figlio è morto, adesso non ho più nessuno che mi chiama mamma.. e io.. ho bisogno…”
Gh’è sta un gran silenzio e po’: “Mamma, mamma, - si son messi a gridare tutti, - mamma” e urlavano con le lacrime :
“Mamma, mamma!”
E per tutti son rimasta la Mamma Togni. 
E non mi fanno su di me: “Sei vecchia, non metterti in mezzo, il tuo dovere l’hai già fatto”.
No, finché gh’è ‘sti assassini d’intorno, ‘sti fascisti, bisogna andare in piazza, insegàgh a ‘sti giovani, ‘sti fieu, Star con loro, dirgli cosa è successo allora sulle montagne perché così imparano. No, non mi vengano a dire sta’ a casa che sei vecchia. 
E’ vecchio solo chi se ne sta a casa coi piedi al caldo e magari con la berretta in testa, una berretta che gli ha imprestato la Dc di Fanfani e Andreotti.
Quelli sì son vecchi, anzi son già morti!!!
 
Questo pezzo è contenuto nel volumone di Dario Fo Teatro
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[AUDIO] Collettivo Teatrale La Comune - Canzone Del Potere Popolare

Registrato nell'ottobre del 1973, cioè un mese dopo il golpe dei militari in Cile.
 
Si tratta di uno spettacolo del Collettivo teatrale La comune, scritto da Dario Fo e messo in scena in quel periodo.
Dario Fo e Franca Rame, assieme ad altri attori, recitano e cantano canzoni scritte da loro e, nel finale, "La canzone del potere popolare".
 
(Advis-Rojas) - Offerta da "Archivio Abastor".
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[STAMPA] Il teatro di Dario Fo e Franca Rame si studia alla Sorbonne

 

marina de juliPARIGI – Tutto il mondo considera ormai il loro teatro al livello di un “classico”: Dario Fo e Franca Rame rappresentano una delle più originali e complete esperienze di palcoscenico e drammaturgia del teatro contemporaneo.
La prova eclatante della loro rilevanza autorale fu il Nobel per la letteratura assegnato nel 1997 all’attore di Sangiano. Da allora, la consapevolezza culturale del loro ruolo si è progressivamente consolidata. Eppure, in Italia, fa ancora un certo effetto rendersi conto del (meritatissimo) credito scientifico del quale all’estero godono i nostri.
“Forse – prova a spiegare Marina De Juli, storica attrice della compagnia Fo-Rame – perché nel nostro Paese è sempre prevalsa la loro figura di interpreti e mattatori su quella di autori. E questo anche per l’esposizione civile e politica del loro teatro”.
Proprio Marina De Juli sarà ospite con ben due spettacoli al Centre Malesherbes di Parigi in occasione di una giornata di studi organizzata dalla Sorbonne: il 15 febbraio prossimo studiosi di teatro italiani e francesi si confronteranno su “Interpréter le théâtre de Dario Fo et Franca Rame. Approches théoriques et pratiques”.
 
“Per quanto riguarda la Francia – ci puntualizza Davide Luglio, responsabile scientifico, insieme a Laetitia Dumont-Lewi e Lucie Comparini, della giornata di studi – il loro teatro si è imposto progressivamente come classico da quando, nel 1974, José Guinot, con l’aiuto di Ginette Herry, lo fece venire in tournée con Mistero Buffo. Da allora, buona parte degli spettacoli di Fo e Rame è stata tradotta e rappresentata, ed è stato possibile cogliere sempre meglio ciò che fa l’universalità, la “classicità” della poetica di Fo. In una recente, bellissima testimonianza, Ginette Herry ne ha messo in evidenza i due aspetti centrali. Da una parte la funzione poetico-politica delle tracce mitiche o delle realtà storiche del conflitto tra «maggiorenti» e «poveri cristi». Si tratta, con esse, di far affiorare o di consolidare la consapevolezza della perennità degli oppressi e della legittimità delle loro lotte e delle loro utopie, dando a queste, magari, anche forza e vita. Dall’altra, la magistrale reinvenzione dell’attore-narratore che privilegia l’azione visiva e lo spettacolo piuttosto che la scrittura, facendo della letteratura non un punto di partenza ma un punto di arrivo”.
Marina De Juli, che in Italia porta in tournée da anni, con successo, una versione personalissima dei lavori di Fo e Rame, si confronterà per la prima volta con la recitazione in lingua francese del suo “Tutta casa letto e chiesa”, mentre “Johanna Padana a la descoverta de le Americhe”, riscrittura al femminile dell’anti-eroe di Fo, andrà in scena con la proiezione di un’inedita traduzione “grafica” realizzata dagli studiosi della Sorbonne.
 
“Molto spesso – aggiunge Marina –, all’estero, la fisicità del teatro di Dario è stata confusa con quella del clown o del mimo. In realtà, Fo è un «anti-mimo», il suo è un lavoro «a togliere». In altre parole, io in scena seguo la lezione del mio maestro: accennare le cose e lasciare alla fantasia dello spettatore lo spazio per completarle”.
Ma in cosa consiste l’elemento di maggior urgenza nel confronto con l’attualità della scrittura di Fo e Rame?
“L’attualità della drammaturgia di Fo è, ancora una volta -– secondo Luglio –, il prodotto della sua classicità. Nel rapporto stile-contenuto va osservato che l’uso che fanno Fo e Rame della storia è sempre un uso allegorico, sicché un fatto legato all’attualità degli anni Settanta o Ottanta nei loro spettacoli assume comunque un valore che supera la contingenza di quel dato momento. Nel 2010 Marc Prin ha portato in scena, al teatro Nanterre/Amandiers, «Clacson, trombette e pernacchi». È stato un grande successo anche se la pièce, strettamente legata alla storia italiana della fine degli anni di piombo, poteva sembrare ostica ad un pubblico francese. Invece, la sua dimensione allegorica ha permesso a Marc Prin di moltiplicare implicitamente i rinvii all’attualità di oggi, proprio perché non esiste epoca in cui non si riproduca, a questo o a quel livello, una dialettica oppresso-oppressore. Quanto all’attualità linguistica, essa è pure presente per lo spazio che occupa nel linguaggio scenico di Fo la visualizzazione gestuale del racconto. Sulla scena della Comédie française l’attore era, per così dire, solo e nudo, disponendo solamente della propria immaginazione per creare e visualizzare la storia che raccontava. E l’immaginazione di un attore è per definizione legata al suo tempo, al presente che vive e condivide con gli spettatori”.
 
15 febbraio 2012
Université Paris-Sorbonne – Salle des Actes – Paris
Giornata di studi
Interpréter le théâtre de Dario Fo et Franca Rame. Approches théoriques et pratiques
 
16 febbraio 2012 – ore 17
Centre Malesherbes, Grand Amphithéâtre – Paris
Johanna Padana a la descoverta de le Americhe
di Dario Fo, adattamento di Marina De Juli
con Marina De Juli
 
17 febbraio 2012 – ore 18
Centre Malesherbes, Grand Amphithéâtre – Paris
Tutta casa letto e chiesa
di Franca Rame e Dario Fo
con Marina De juli
 
Organizzazione:
Université Paris-Sorbonne
PRITEPS – Programme de Recherches Interdisciplinaires sure le Théâtre et les Pratiques Sceniques
ELCI-EA 1496 – (Équipe Littérature et Culture Italiennes)

fonte: etudesitaliennes.hypotheses.org

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[STAMPA] La straordinaria coppia Dario Fo e Franca Rame sabato a Varese con “Mistero Buffo”.

Buffi,  vero, ma sempre di misteri si tratta. Quelli che Dario Fo e Franca Rame porteranno a Varese, sabato 18 alle 21 al Teatro di Varese a quarantatre anni di distanza dalla prima rappresentazione del testo teatrale: 1969, a Milano, “in un capannone di una piccola fabbrica dismessa dalle parti di Porta Romana”. Non è troppo affermare che Fo deve ad un’opera dei tardi anni Sessanta il suo Premio Nobel per la Letteratura del 1997. L’Accademia di Svezia sottolineò l’importanza dell’attore nel “fustigare il potere e riabilitare la dignità degli umiliati…”. Complice il corpo, il gesto, l’intonazione, lo sguardo. La compiutezza di un “grandissimo mimo”, come scrive Gianfranco Folena. Perché “Fo padroneggia da maestro le tecniche del discorso e della narrativa popolare”. Con Fo sul palco “potrete ottenere un’idea del tutto credibile di cosa fosse il teatro satirico dei giullari medioevali”, dice ancora Folena.
 
Linguaggio dai mille dialetti padani, nato dal migrare dei buffoni-clown-giullari. Fonte di comicità, grottesco, anticlericalismo. Spregiudicata la parola e l’accentazione; diavolesco – quasi – il suo ritorcersi nelle pieghe del viso e del recitare. Il canto, in questo caso, è parola e verso. E il racconto – Mistero Buffo nasce come giullarata popolare basata in parte sui vangeli apocrifi e sui racconti del volgo sulla vita di Gesù – è espressione di vita consumata. Ma, soprattutto, desiderata e vissuta. Non si tratta, dunque, solo di buffonesca rappresentazione del Mistero, ma rievocazione mistificata di episodi esplosi in un grammelot – linguaggio misto e a volte inafferrabile – che trasforma il pubblico in protagonista, non passivo, dello spettacolo. E’ l’umanità intera a porsi in gioco. Sono i suoi dubbi, le sue fantasie, le sue illusioni. Forse, il bisogno di guardare ad una figura di Gesù che sia umana, dunque, sempre “credibile”.
 
Per Dario Fo, recitare non è un mestiere ma un divertimento. Anche quando si tratta di “buttare all’aria convenzioni e regole”. Eppure, in “Mistero Buffo”, le regole sono quelle di un’umanità che si interroga sul Mistero e che di questo vuole conoscere, sapere e condividere. Senza filosofie e teologismi. La sua accezione terrena, certo non facile per chi esercita un credo assoluto nella fede, rappresenta il lato provocatorio della storia. Addirittura dissacrante quando si tratta di mescolare le carte di fronte alla “Resurrezione di Lazzaro”, “Bonifacio VIII”, “La fame dello Zanni”, la “Storia di San Benedetto da Norcia” o “Maria alla Croce”. Certo: come può una madre accettare la morte di un figlio? Come può non chiedere spiegazioni all’arcangelo Gabriele dei suoi messaggi? La vita e la morte. E, nel mezzo, i miracoli, le sbornie, lo spettacolo di chi risorge, l’ingordigia di colui che vuole mangiare…anche se stesso.
 
“Mistero Buffo” è tutto questo: una parabola di creatività artistica nella quale il Bene e il Male si contendono in una confusione che può essere risolta solo nei codici atavici della coscienza. E di una curiosità spaventosamente umana.
 
Davide Ielmini
 
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