Discussione politica

Parliamo di donne – di Rossana Rossanda, il Manifesto, 31 marzo 2008

Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono? Ne conosciamo i frammenti minoritari che hanno accesso alla parola, i numeri muti delle statistica, le immagini tv.
 Dalle quali trarre deduzioni è rischioso: piangenti, al mercato, rare imprenditrici brillanti, rare ministre, zero segretarie di partito, zero segretarie delle confederazioni sindacali (è arrivata prima la Confindustria), qualche insegnante o professionista, e una gran massa di veline, tutte carine, tutte uguali. E un valido campionamento del paese? Mah. Una volta la regione campana prese la tv così sul serio da organizzare corsi professionali per le aspiranti veline.
Tradotto in «desiderio politico», che cosa sono? Emancipate? Certo in uscita transitoria dallo stereotipo donna al focolare. Se arrivano a farsi conoscere, sono in grado di mandare a spasso un marito, salvo congruo assegno. Ma se emancipate significa che ambiscono a prendere il posto degli uomini, non direi. Le emancipate che lo ambiscono sono relativamente rare, salvo nell'insegnamento, dove costituiscono la maggioranza ma non ne reggono le redini né una riforma del sistema è stata avanzata da riconoscibili donne. Quanto alla massa di carine, sono giunte a professionalizzare (precariamente) il classico desiderio maschile e il nostro, pare altrettanto classico, esibizionismo, senza grande spesa e trasgressione. Difficile immaginare che idea di società abbiano. Come le casalinghe per scelta, sempre di meno ma con la bizzarra componente delle figlie super emancipate e disinibite dal 1968. Strana generazione, che a un certo punto sceglie di tenersi sul sicuro, cosa che mamma ai suoi tempi non ha fatto. Devono essere elettrici tendenzialmente democratiche, magari «riformiste».
Poi ci sono quelle che parlano. Anche di politica, emancipate o femministe. Il desiderio delle prime, che spesso hanno avuto un passaggio femminista light, è di affermarsi nell'arco politico esistente. Con una qualità in meno o in più dei maschi: sono capaci di «staccare». E' interessante il percorso di decine di migliaia di amministratrici locali, spesso ottime: uno o due giri da consigliere, assessore o sindaco e poi se ne tirano fuori. E non irate o deluse, ma per voglia di fare altro. Questa caratteristica è importante per capire quanto la politica conti per la donna che ci si è messa: raro che ci muoia. Sarebbe garanzia di un equilibrio? Somiglierebbe al disinteresse personale? E intanto mezzo secolo di amministratici locali hanno mutato o no il potere locale? Ne hanno modificato le regole? Accresciuto l'autonomia?
Credo di no. Non diversamente dalle istituzioni nazionali, in quelle locali le donne non hanno reclamato, e tanto meno ottenuto, cambiamenti né di fini né di regole.
Di qui il rapporto acerbo fra le femministe e la sfera politica. Inutile girarci attorno. Là dove avrebbero in via di principio un ascolto, cioè a sinistra - è stato un penoso errore da parte di un loro gruppo credere che uno spazio ci fosse a destra per via di Lady D e Irene Pivetti - i leader della medesima si spendono in parole e stringono poco nei fatti. Gli uomini di sinistra imbrogliano o si imbrogliano da sé, le donne di sinistra protestano. O da lontano, scrivendo con amarezza della irreversibile crisi della politica, o da vicino, organizzando proteste su obbiettivi indiscutibili, come la violenza, ma poco cavandone fuori. Quale dirigente maschio oserebbe dire: «Insomma, se il marito la pesta (una donna ogni tre donne viene picchiata in Francia) o le ammazza (idem, una ogni tre giorni), se la sarà cercata». Quando mai. Soltanto che nessuna gli pone in termini secchi la domanda: «Non ti chiedi perché il tuo sesso continua ad ammazzarci?». Il leader condanna sinceramente ma pensa: quelli non sono come me, sono perversi o assassini, roba da codice penale. Non lo sfiora che la brutale negazione fisica di lei abbia una parentela con la negazione simbolica che lo induce a discriminarla dalle cariche decisive («non ce la farebbe»).
In politica resta inesplorata la zona oscura del conflitto millenario fra i sessi. Soprattutto in Italia e in Francia, dove le «emancipate» che partecipano al potere eludono il tema, e le femministe, fra loro diverse, non partecipano gran che al primo e rompono i ponti sul secondo. Non è senza interesse chiedersi perché resti così profonda o, se da qualcuna praticata, irrisolta in lei stessa, la separazione fra coscienza e partecipazione femminista e coscienza e partecipazione politica. Penso alle recenti interviste sul nostro giornale di Ida Dominijanni a Judith Butler e Wendy Brown (il manifesto 25 marzo). Butler è impegnata a fondo su tutti e due i terreni, esplora la zona oscura in termini sovversivi proponendo l'intersessualità come norma - «Gender Trouble» - e prendendo di petto, e non genericamente, temi scottanti dell'attuale politica degli Usa. C'è probabilmente una diversa tradizione intellettuale, perché non è che le europee siano meno radicali; probabilmente il sistema politico americano è così precluso - per fare un presidente (o un governatore) ci vogliono centinaia di milioni e quasi due anni di campagna elettorale full-time - che la presa di parola politica non ha mediazioni con istituzioni e partiti, o si espone direttamente o non è. Insomma si interviene in politica a prezzo di impegno e competenza specifica dalla società civile, considerano milizia femminile e milizia politica un unicum, come a mio avviso realmente sono. Non investono ambedue il sistema delle relazioni?
In Italia no. Forse per il ritardo della emancipazione in presenza d'una gerarchia cattolica invadente. E' stata più la modernizzazione capitalistica della società che la politica a farla avanzare. Forse per l'essersi formato il primo e il secondo femminismo in collegamento stretto con la sinistra; il primo con il Pci e il Psi e il secondo - anche se non collegato altrettanto strettamente - con il 1968 e il rivoluzionamento che esso ha comportato nei paradigmi del politico per tutti gli anni '70, finendo con l'essere l'unica vera trasformazione culturale che ne è rimasta, minoritaria ma irreversibile. Più che in Francia e in Germania, credo.
Ma la sua contiguità originaria con il bacino «marxista» - marxista più come pratica etica ed emozionale che come elaborazione teorica, caratteristica di tutta la sinistra italiana - ha portato le donne a un corto circuito: rapido investimento e rapida disillusione, 1968 incluso, e peggio con i successivi gruppi extraparlamentari. Vibra ancora indolenzito un cordone che si è spezzato. Gli uni non capiscono le altre e viceversa, fino a ignorarsi, al di là di qualche convenevole, come se fossero due settori separati d'esperienza e competenza. (Di questo bisogna chiedere alle donne, dice lui. La politica non mi interessa più, dice lei).
Non che sia agevole fare una mappa dei gruppi femministi italiani. Proprio perché sono, mi sembra, più diffusi che altrove e frammentati si rischiano giudizi facili. Ma molto sommariamente si può avanzare che le principali posizioni rispetto al «fare» politico sono due. L'una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione, certo fra gli uomini e in molta parte delle donne; e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l'uno e l'altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. E ormai traversati brutalmente dalle biotecnologie che tendono a modificare la posta in gioco della riproduzione. Di qui l'oscillazione fra il rifiuto conservatore della chiesa, l'interesse alla libertà della scienza (che si presume) disinteressata, e un rifiuto femminile in nome di un diritto primario e autentico che non è riconosciuto né dalla chiesa né dalla scienza e, come ha dimostrato il referendum sulla riproduzione assistita, spesso dalle donne stesse.
La seconda posizione, all'inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto - il conflitto è comunque un rapporto - un'eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile. E del resto perché sorpassarla? Nel momento in cui la donna spezza il presunto universalismo del maschile (il patriarcato) e si riconosce il suo sesso come principio di sé - si era fin suggerita una «specie umana femminile» - si scopre come un valore, si dà una genealogia e un ordine simbolico (materno invece che paterno), la rivoluzione è già avvenuta, il patriarcato se non finito è incrinato. A questo punto o le donne si appartano nella separatezza (la comunità dello Scamandro di Christa Wolf), o restano nel mondo intervenendovi come un complesso interelazionale autonomo, che risponde ai suoi propri principi.
Soprattutto alla seconda posizione il sistema politico, con il quale si è inutilmente incontrata e scontrata, e con esso l'intero pensiero politico della modernità appare segnato da un solo codice, quello maschile, e così il lessico, e così il linguaggio. A questo punto il dialogo appare impraticabile. Riscoprirsi nella propria interiorità svalorizza ogni pretesa di universalismo come è proprio specie della costituzione di un diritto, punto centrale della politica. L'avvertimento «non credere di avere dei diritti» volge facilmente in un «Non ce ne importa del diritto», occorre una revisione ab imis che costituisce «la politica prima». Basta guardare alla sorte delle donne entrate nella poderosa macchina delle istituzioni per aver la conferma di quel che pare un eccesso.
Ma lo stesso vale per chi non arriva a questo limite di separatezza e ha cercato di partecipare o almeno collaborare al sistema politico per non isolarsi, sperando di inserire un cuneo, un dubbio.
Qui siamo. Non sembra che le forme e le figure attuali della politica o dei partiti ne siano coscienti o almeno se ne facciano un problema. Non la destra o il centro cattolico, per i quali il problema non esiste. Non il Partito democratico, invischiato fra cultura cattolica e una laica che rinnega il passato e prende a prestito qua e là del presente non esiste. Ma non è chiaro se ne sia sfiorato quel work in progress che sarebbe la Sinistra Arcobaleno, che il Partito democratico farebbe volentieri a pezzi. Non è chiaro se ne sono coscienti neppure le culture dell'autonomia.
Ma qualcuno è disposto a sostenere seriamente che senza prender questo toro per le corna - questi tori, perché è il tema fondamentale delle relazioni che è in causa - una convivenza moderna o postmoderna si possa civilmente dare? Io non credo.
 


Salma piatta - di Marco Travaglio

Uliwood party
l'Unità, 28 marzo 2008


E’ tornato lui. Contavamo i giorni, per vedere quanto avrebbe impiegato a riesumare i comunisti, Stalin, la Rai in mano alle sinistre, la par condicio illiberale. L’ha rifatto. Anzi, ha voluto esagerare e ha rispolverato pure la laurea di Di Pietro, una gag che risale addirittura al 1995 e che è già costata condanne per diffamazione a decine di pennivendoli al seguito. E’ bello e rassicurante ritrovare il vecchio Banana dei tempi migliori. “Berlusconi - osserva Ellekappa - tira fuori i suoi vecchi cavalli di battaglia. Vediamo se ritira fuori anche lo stalliere”.

Come i guitti a fine carriera che cercano di strappare l’applauso col repertorio, l’anziana soubrette di Arcore provvede a smentire tutti i politici e gli opinionisti “riformisti” che negli ultimi mesi lo descrivevano trasformato, moderato, dialogante, insomma un uomo nuovo, uno statista col quale riscrivere le regole della Repubblica, forse anche il codice della strada, sicuramente il codice penale. Infatti da un paio di giorni Uòlter ha cominciato a parlare di tv, di conflitto d’interessi, perfino. Ecco, dev’essere stata la parola mafia a mettere di cattivo umore il Cainano, insieme alle notizie dal Liechtenstein e dal resto d’Europa, dove i governi si stanno impegnando contro l’evasione fiscale che lui ebbe modo di definire alla festa della Guardia di Finanza “un diritto naturale che è nel cuore degli uomini”, soprattutto nel suo. Lui, sui depositi di Vaduz, aveva dichiarato: “Il Liechtenstein non so nemmeno dove stia”.

Ma l’altroieri, con una strana classica excusatio non petita, è intervenuto l’on. avv. prof. Gaetano Pecorella, sorprendentemente allarmato: “Gli elenchi dei titolari italiani di conti correnti in Liechtenstein sono inutilizzabili, perchè si tratta di prove raccolte illecitamente. Il funzionario di banca ha commesso un illecito, sono informazioni coperte da segreto bancario”. Mavalà: se un topo d’appartamenti, svaligiandone uno, trovasse un filmato che immortala il mandante di un omicidio mentre assolda il killer, verrebbe certamente processato per furto; ma poi verrebbe processato anche il mandante dell’omicidio. Lo stesso vale per gli elenchi dei furboni di Vaduz, tant’è che 37 procure italiane, come i giudici di tutt’Europa, li usano eccome.

La spiegazione alternativa di tanto nervosismo è che l’ormai celebre “cordata italiana” per Alitalia stenti a decollare. A sentir lui, è tutto pronto. Tant’è che, col riserbo che lo contraddistingue, spiattella nomi e cognomi a chiunque incontri per strada, salvo meravigliarsi se Minzolini, appostato dietro la fioriera, ascolta e scrive tutto sulla Stampa. La terzultima versione della “cordata italiana” comprendeva Banca Intesa (che l’ha mandato a stendere) e la figliolanza (ma poi gli han votato contro persino Piersilvio e Marina). La penultima, Bracco, Tronchetti, Doris, Moratti, il mitico Carlo Toto (di cui il Pdl candida il figlio) e forse l’Aeroflot (tramite l’amico Putin). L’ultima, svelata ieri da Minzolini, schiera Mediobanca, Eni, Ligresti e Benetton (oltre, naturalmente, a Berty, sempre a disposizione).

Malauguratamente il Cavaliere s’è scordato di avvertirli, per cui i quattro soggetti interessati, appena si son visti sul giornale, sono corsi a smentire tutto. E lui naturalmente ha smentito se stesso. Ma c’è da giurare che è già pronta una quarta cordata: già si parla delle patatine Pai, della rivista Topolino, del titolare dei Chupa Chupa, di un produttore di mozzarelle di bufala e, come advisor, di Braccobaldo Bau. Si dirà: ma non hanno i mezzi. Che problema c’è: l’importante è sparare nomi a raffica fino alle elezioni, poi lui gli dà i soldi necessari prelevandoli dalle nostre tasche (parla di un “prestito ponte” del governo o, in alternativa, di un credito d’imposta ad Alitalia se resiste ai francesi un altro po’, tanto perde solo 1 milione al giorno). O farà come nelle campagne abbonamenti del Milan: prima annuncia l’acquisto di Ronaldinho, Drogba, Eto’o; poi, quando tutti i tifosi han pagato la tessera, annuncia costernato che sarà per l’anno venturo.

Qualcuno insinua infine che sia nervoso perché l’incedere degli anni è più forte di qualunque lifting, trapianto, asfaltatura (di qui la fuga dai confronti con Uòlter): l’altro giorno, di passaggio da Viterbo, il nostro ha sostato un’ora dinanzi alla salma di Santa Rosa. Secondo il Corriere, “una ricognizione medico-scientifica ha confermato lo straordinario grado di conservazione del corpo”. Il quotidiano non specifica di quale salma.


Meglio puntare sugli uomini - di Maria Laura Rodotà - Corriere della Sera

E' delusione per le donne presenti nelle liste, sono in poche a convincere
Ammettiamolo. Deludono una via l'altra. Delude perfino Daniela Santanchè, unica femmina dominatrice di questa triste tornata elettorale. Finora icona sadomaso che faceva sperare cuori neri ma anche elettori del Pd (specie nelle regioni col Pdl in bilico, tipo Lazio), si è prodotta in dichiarazioni poi smentite su un'eventuale fiducia a Berlusconi facendo arrabbiare i suoi fans. Delude perfino più del previsto Marianna Madia, giovanissima speranza piddina, rivelatasi agente infiltrata al servizio della Sinistra Arcobaleno: sul cui simbolo è riuscita a spostare svariati voti (specie nel Lazio, dove è capolista) nella sola giornata di ieri, causa intervista al Foglio molto anti-aborto, molto pro-donne spose e madri intente a «riumanizzare la vita disumanizzata».
E poi ci sono le assistenti dei leader; e poi c'è la figliola dell'ex ministro Cardinale; e poi c'è la chirurga estetica di Berlusconi, forse ricollocata causa lavoro usurante; poi c'è la fisioterapista che lo ha curato, poi c'è...C'è che se una potesse scegliere — ovviamente non può, le liste sono bloccate— preferirebbe votare i maschi, sul serio. I soliti, più usurati della chirurga di Berlusca. Ma meno irritanti, e più bravi nel giocare la partita elettorale (tutto è relativo). Fanno arrabbiare i loro oppositori e ancor di più i loro elettori, spesso; meno spesso fanno cadere le braccia, come capita con le candidate donne. E poi, insomma: una donna di destra vecchio stile vota più volentieri la ricca, edonista, politicamente opportunista Santanchè o il verace Storace? Una berlusconiana preferisce l'originale (Vabbé, quel che ne resta dopo gli interventi della dott. Rizzotti) Silvio o il derivato Michela Brambilla? Una donna che è stata di sinistra si tura il naso più volentieri per Uolter o per Marianna? E ancora: un'elettrice di centrodestra laica e antifascista è più contenta di votare l'ex missino Gianfranco Fini, aperto sulle questioni riproduttive, o l'ex femminista ora teocon Eugenia Roccella, al cui confronto il cardinal Ruini è un simpatico sovversivo (lei ha spiegato che i dilemmi bioetici sono vergognosamente considerati dalla sinistra «sul piano dei diritti individuali» mentre ci vuole «una visione antropologica chiara», e niente fregole)? Risposte a piacere.
Sono elezioni per misogine, comunque. Perché le donne eccellenti sono poche, anche qui le solite. E qualcuna, come Emma Bonino, si lamenta perché pochissimo coinvolta nelle iniziative elettorali. Le altre, le nuove, mostrano (a) come, grazie alle liste bloccate, i leader maschi scelgano candidate non in base alla loro capacità e al loro appeal elettorale, ma secondo il loro ideale femminile; e (b) che le elettrici non sono conquistate dalle bellone, dalle madonnine infilzate e neanche dalle dominatrici. Amerebbero votare donne competenti, possibilmente simpatiche, sennò meglio un uomo (intanto l'Italia è l'unico paese occidentale dove circolino catene di sant'Antonio femminili via e-mail in cui si suggerisce di andare al seggio con una D rossa sul petto, una lettera scarlatta di protesta; non siamo messe bene, no davvero).


Cacho Caselli, dai golpisti al Pdl - di Eleonora Martini su Il Manifesto del 13/03/2008

Personaggi neri in Italia ed eminenze grigie all'estero. L'elenco dei candidati "discussi" presentati dal Popolo delle libertà si allunga se si vanno a sbirciare le liste presentate dall'altra parte dell'Atlantico, agli italiani residenti in terra argentina per il voto nella circoscrizione estero. Dopo Ciarrapico, il fascista, spunta ora il nome di Esteban Juan Caselli, detto «Cacho», ma anche «il vescovo» per le sue frequentazioni. Ex ambasciatore argentino in Vaticano durante il governo di Menem dal '97 al '99 e funzionario durante la dittatura dei generali Viola e Bignone, nel giugno del 1997 Caselli fu accusato dall'ex ministro dell'economia, padre liberista della moderna finanza argentina Domingo Cavallo di aver costituito «una rete di protezione giuridica che dava appoggio locale agli autori dell'attentato contro la sede dell'Associazione di mutua assistenza israelo-argentina (Amia) di Buenos Aires» avvenuto il 18 luglio 1994 e che causò la morte di un'ottantina di persone e il ferimento di un centinaio. A ricordarlo è stato ieri Luciano Neri, uno dei responsabili del Coordinamento nazionale del Pd per gli italiani nel mondo, che ha chiesto a Berlusconi di ritirare dalle liste il nome di «Cacho» per «favorire candidature etiche». L'ex ambasciatore Caselli due giorni fa avrebbe anche rivelato al quotidiano argentino Critica di avere avuto l'offerta del seggio al Senato «da Berlusconi in persona».
«Sulla cospicua eredità che gli avrebbe lasciato un ufficiale dell'aviazione militare, Miguel Cardalda, di cui era autista - racconta Luciano Neri - sono state riempite pagine e pagine da giornalisti e scrittori fra i quali l'attuale deputato Miguel Bonasso, autore di "Don Alfredo", e Olga Wornat, autrice di Nuestra Santa Madre». In patria parlano di un patrimonio accumulato che si aggirerebbe attorno agli 800 milioni di dollari. «L'ex ministro Cavallo - continua Neri - ha esplicitamente incluso l'aspirante senatore italiano Caselli in una "mafia" legata ad Alfredo Yabran, personaggio collegato tra l'altro all'uccisione di Josè Luis Cabezas, fotografo del settimanale politico argentino Noticias. Yabran, attualmente scomparso, è stato considerato anche "prestanome eccellente" dell'ex presidente Menem». I rapporti personali tra Menem e «il vescovo», come lo chiamavano i giornali di opposizione, si sono deteriorati quando è esploso l'affaire del traffico d'armi vendute illegalmente alla Croazia durante la guerra con la Serbia e all'Ecuador durante il conflitto con il Perù. Le indagini coinvolsero anche al Casa Rosada e, grazie alla testimonianza di Caselli, coinvolto nell'inchiesta, il presidente Menem finì agli arresti. «Cacho», vicino al cardinale Angelo Sodano, ha buoni rapporti con la parte più conservatrice della chiesa argentina e pessimi con i più progressisti perché nel suo tessere legami tra la Casa Rosada e il Vaticano ha spesso accuratamente tenuto fuori molti vescovi locali. Come nel '98, quando durante la visita di Giovanni Paolo II a Buenos Aires organizzò solitariamente l'ennesimo incontro tra il Papa e il presidente. Il suo circolo di potere non è estraneo al siluramento di molti vescovi progressisti: l'ultimo, Maccarone, sarebbe stato "fatto fuori" consegnando direttamente al Vaticano il video di un rapporto sessuale tra il vescovo e un giovane ragazzo. Senza dubbio, insomma, un'altra candidatura che «serve» al Cavaliere «per vincere». Anche se, a ben guardare, il personaggio è visto come fumo negli occhi dall'attuale governo di Cristina Kirchner che probabilmente farà di tutto per contrastare la candidatura.
Ma le sorprese nelle liste dei candidati del Pdl riservati ai 3.649.000 italiani iscritti alle liste dell'Aire, non finiscono qui. Nella ripartizione Europa ad esempio - una delle quattro in cui viene ripartita la circoscrizione estero secondo la legge Tremaglia - il deputato uscente Massimo Romagnoli, proveniente da Glyfada, una delle zone residenziali di Atene, il cui nome fino a un mese fa era addirittura indicato come papabile ministro degli italiani all'estero in caso di vittoria del Pdl, è stato relegato invece al decimo posto della lista per la Camera. Al suo posto come capolista c'è invece il leghista Giuseppe Learco Plebani, già candidato alle scorse elezioni senza alcun successo. Nel centrodestra parlano di «errore», ma forse confidano nel fatto che all'estero gli elettori possono indicare la preferenza, vigendo per la Camera il sistema strettamente proporzionale. Di certo dovranno fare i conti anche con l'Udc che nella ripartizione America settentrionale presenta alla camera lo statunitense Massimo Seracini, che potrebbe sedurre l'elettorato cattolico fedele al deputato uscente Salvatore Ferrigno, inspiegabilmente non riconfermato nel Pdl.
D'altra parte la sorpresa che riservarono gli italiani residenti all'estero alle elezioni politiche del 2006 nessuno l'ha dimenticata. Perciò nessuno vuole perdere l'occasione di un voto che potrebbe ancora una volta risultare decisivo. Eppure in entrambi gli schieramenti le previsioni più gettonate danno una sostanziale parità, 6 deputati. Voce però già circolata anche nel 2006, fino al clamoroso risultato che vide l'Unione aggiudicarsi otto deputati e quattro senatori contro i quattro e uno del Polo. L'errore allora fu tutto della coalizione di centrodestra che non riuscì a tenere a bada il senatore Mirko Tremaglia e la sua personale lista. La tenuta della coalizione di centrosinistra invece premiò l'Unione anche se, con la vittoria in tasca, i democratici rivendicavano di aver semplicemente raccolto quanto seminato in «trent'anni di lavoro con gli emigranti italiani nel mondo». Il panorama questa volta è completamente diverso, più simile a quello delle altre circoscrizioni. «Eppure se non si riconosce la specificità del voto all'estero non capisci nulla di come andranno queste elezioni», spiega Norberto Lombardi, altra colonna portante del Coordinamento Pd italiani nel mondo. Loro, dicono, ci hanno provato a fare un accordo con le altre forze di sinistra: «Potevamo giocare un'asimmetria politica all'estero, fermo restando la specificità italiana», spiega Lombardi. Non ci sono riusciti. E così oggi i loro candidati sono "minacciati" dalla presenza delle liste della Sinistra arcobaleno (che non si presenta in Nordamerica), di Sinistra critica (solo in Europa), ma anche e forse soprattutto da quelle di Luigi Pallaro e Ricardo Merlo in Sudamerica. In particolare, a turbare i sogni dei democratici è la lista Movimento Associativo Italiani all' Estero, l'ultima invenzione dell'argentino Merlo, il candidato più votato in tutta la circoscrizione durante la scorsa tornata elettorale, quando era capolista alla camera sotto il simbolo di «Pallaro senador». I due hanno litigato forse perché in Pallaro ribolle un'anima troppo conservatrice. Nelle liste di Merlo c'è una candidatura importante, quella più inquietante per il Pd: l'argentina Mirella Giai, che nel 2006 era capolista al senato per l'Unione e in un primo momento venne data per eletta. Nel riconteggio finale però venne scavalcata per pochi voti dal brasiliano Edoardo Pollastri (confermato quest'anno dal Pd, in coppia con la deputata uscente di Caracas Mariza Basile). La cosa non andò giù a Mirella Giai e così, dopo aver tentato inutilmente ricorso, ora ha deciso di passare alla concorrenza. Per il resto, le liste dei democratici non riservano grandi sorprese: tante riconferme e una sola new entry, la 29enne di Johannesburg Romina Crosato. Molto malumore invece per l'esclusione in Nord America del deputato Giovanni Rapanà, di Montreal, che alle scorse elezioni aveva ottenuto più voti di Gino Bocchino, canadese anche lui ma di Toronto, confermato capolista alla camera. Malgrado il tempo decisamente tiranno in questa tornata elettorale, anche la Sinistra arcobaleno ce l'ha fatta a presentare le liste quasi ovunque. In Europa ripropongono il deputato verde uscente Arnoldo Casola, mentre in Sudamerica puntano su esponenti dell'estrema sinistra uruguaiana, venezuelana, brasiliana e argentina. Infine al senato in Oceania, l'australiano Giovanni Sgrò, storica figura di lotte contadine. Un nome d'eccezione.
 


Per chi vota la mafia di Peter Gomez - l’Espresso

 Cari Amici,
immagino che alcuni di voi abbiamo già letto quest'articolo dell'Espresso. Ma per tutto coloro che non ne hanno avuto occasione, si tratta di un vero e proprio "vademecum elettorale", per arrivare preparati al voto!redazione 
 
Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella. Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze (17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre archiviata.

Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci, complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo (persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono), Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli occhi.

Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici) o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone. In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi, imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque, chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno pesare".

 
Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto, sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti) gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini elettorali.

Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro, l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani. Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina,sulla saracinesca del negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un' immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti, parlavano solo di lui.
Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori. Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a 5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta.

Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano, tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss di Canicattì, Calogero Di Caro.

Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la politica.

Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto, mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il "cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello, condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per diffamazione).

Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante velina, volto giovane del Tg4, ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco, definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001. Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale' come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di tutti i capi, Michele Greco.

Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia, condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro. In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per mafia nel 2005.

Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra). Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui, come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela. Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di essere incensurato.

Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli (An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta. La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati, allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano.

Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15 comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza. Alle prese con l'emergenza rifiutiil Pd pare essersi mosso con relativa cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà anche la parte peggiore.

hanno collaborato Arcangelo Badolati, Giuseppe Giustolisi, Roberto Gugliotta e Claudio Pappaianni
(20 marzo 2008)


Acqua azzurra, acqua «antidepressiva» da "il manifesto" del 25 Marzo 2008 - di Luca Celada

La specialità di Los Angeles sono gli ansiolitici e gli antiepilettici, nel New Jersey dominano le medicine per l'angina e i tranquillanti come la carbamazepina a Tucson vanno gli antibiotici e a San Francisco c'è una spiccata presenza di ormoni. Un menù farmacologico che comprende antidepressivi, antidolorifici, anticoagulanti, diuretici antinfiammatori e farmaci per il controllo del colesterolo, tutti nell'acqua potabile rilevati da un indagine della Associated Press sulle scorte di acqua dei 50 stati americani comprese 24 grandi zone urbane. Conclusione dell'inchiesta durata 4 anni: «l'acqua potabile usata da almeno 41 milioni di americani è contaminata da una vasta gamma di sostanze farmacologiche».
Si tratta è vero di dosi «traccia» ben al di sotto di quelle ritenute nocive o anche efficaci ma lo studio basato su centinaia di analisi di laboratorio, rilevamenti ambientali e interviste con esperti, conferma che le acque potabili assomiglianao sempre di più ad un «brodo primordiale» farmacologico pieno di supplementi ormonali, antibiotici, anticonvulsivi, psicofarmaci, i residui insomma delle 3,7 miliardi di ricette mediche fatte in America più un altro 3 miliardi e rotti di medicine da farmacia assunte annualmente. Un fenomeno naturalmente non limitato agli Stati uniti; risultati analoghi sono stati rilevati in Canada oltre che in Australia, Asia e Europa.
La fonte delle sostanze chiaramente siamo noi, sempre più popolazione ipermedicata. I farmaci che assumiamo in quantità collettivamente mastodontiche vengono infatti assorbiti solo in parte dal metabolismo degli organismi cui sono inizialmente destinati (i nostri) mentre le quantità eccedenti espulse tornano nell'ambiente attraverso gli scarichi fognari. Sommariamente filtrate queste acque di scarico sono reimmesse nell'ambiente, in laghi e fiumi, riutilizzate per l'irrigazione dei campi, e riassorbite nel ciclo naturale di evaporazione e scolo per tornare infine alle falde acquifere. A volte sono le stesse acque di superficie ad essere purificate per essere riutilizzate direttamente come acqua potabile, ma i sistemi di depurazione non sono però sufficienti a sbarazzarsi del tutto delle sostanze chimiche che compongono i medicinali.
Nessuno conosce gli effetti dell'esposizione cronica a piccole dosi di questo «casuale» cocktail farmaceutico ad esempio sul metabolismo cellulare ma come ha rilevato uno degli esperti consultati dalla Ap, anche se le dosi sono minime si tratta pur sempre di sostanze prodotte per avere effetti specifici sull'organismo umano e quindi almeno potenzialmente più specificamente nocive di veleni ambientali come i pesticidi. Più inquietante ancora è la questione dell'impatto epidemiologico, gli effetti prodotti su una popolazione esposta anno dopo anno a piccole dosi di analgesici o antidepressivi o antibiotici, una specie di omeopatia inversa e perniciosa dagli effetti ignoti sulla tolleranza o le allergie, per citare solo due esempi. Nel caso degli antibiotici proprio la diffusione ambientale pervasiva in piccole dosi dell'attuale campionario sembrerebbe lo scenario ideale per rafforzare le resistenze dei patogeni. Né si tratta di un fenomeno limitato alle aree urbane ad alta densità visto che positivi ai farmaci sono risultati anche campioni prelevati in zone rurali, in campagna inoltre si aggiungono i problemi dovuti alle perdite incontrollate dei pozzi neri. I farmaci sono stati trovati infine anche in acque in bottiglia in particolare quelle contenenti acqua di rubinetto filtrata dato che i medicinali non vengono eliminati da filtri covenzionali ma solo da sistemi sofisticati e costosi come l'osmosi inversa. I risultati dell'inchiesta hanno dimostrato soprattutto una cosa: la terra è una biosfera, un sistema biodinamico chiuso la cui capacità di assorbire e smaltire l'impatto dell'uomo sta rapidamente raggiungendo il limite. La pressione che stiamo applicando all'ambiente sta cioè contaminando una delle risorse più preziose: l'acqua pulita.
 


dal blog di Jacopo Fo: come si bacia una ragazza

da www.jacopofo.com
Internet è il paese delle meraviglie.
Google offre un servizio gratuito di statistiche per il tuo sito.
Così puoi sapere un mucchio di informazioni.
Ad esempio che parole chiave usa chi arriva sul tuo sito.
19 ragazzi hanno cercato "Come si bacia una ragazza" e qui spiegherò come si fa.
Questo perché mi sono commosso di tenerezza pensando a quanto anch'io ho patito e mi sono arrovellato chiedendomi come dovessi fare per baciare una ragazza.
Una vera cattiveria che non lo insegnino a scuola.
Comunque passiamo a spiegare come si bacia.
1) La cosa importante da capire è che le ragazze amano la dolcezza.
Il bacio dovrebbe essere un modo per comunicare con i movimenti quello che le parole non possono dire.
Emozione. Baciare è come scrivere una poesia.
Molti maschi baciano come se fosse una competizione sportiva, una prova di coraggio, una dimostrazione di forza fisica, una lotta tra lingue.
NO!!!
Baciare è un modo per raccontare una similitudine poetica: sei tanto bella che ti mangerei come se tu fossi una fragolina di bosco.
Sei tanto amabile che ti succhierei come se tu fossi un cioccolatino.
Sei tanto morbida che mi viene voglia di giocare a saggiare la tua morbidezza.
Inoltre se muovi la lingua e basta, senza lasciarti andare alle sensazioni che la bocca, le labbra e la lingua di lei ti fanno sentire allora bacerai uno schifo.
La chiave di tutto è mettersi in uno stato d'animo contemplativo, rilassato e sorridente.
Avvicinare le labbra alle sue come se stessi per assaporare la miglior crema alla vaniglia del mondo e ascoltare il lento accarezzarsi di labbra e lingue.
Poi se vuoi puoi anche muovere la lingua un po' più velocemente ma solo se da questo movimento trai una sensazione fisica piacevole.
Ma la velocità non fa punteggio, è un gioco di ascolto non una gara di corsa.
Più ascolti le sensazioni, più entri in empatia con la ragazza, più riesci a lasciarti andare e i movimenti diventano spontanei, la mente smette di pensare e tu sei lì che non fai niente altro che ascoltare cosa ti piace di più nei movimenti che fai.
Non pensare "adesso devo fare questo, adesso devo fare quello".
Non c'è nessun copione da eseguire.
Nessuno sa come deve essere un bacio, nei dettagli.
Ogni bacio è un caso unico a sé.
Il bacio è una poesia inventata al momento lasciando che le parole vengano fuori spontaneamente, senza stare lì a controllare se sono giuste o sbagliate. Fidati: quando sei in questo stato libero e sorridente della mente scopri che sai come fare a farla impazzire senza doverci pensare. E’ la magia della natura. Baciarsi è una cosa che è scritta nel tuo DNA. Non la devi imparare. Devi scoprire che lo sai già fare.
2) LA TECNICA DEL BACIO
Chiarito lo scopo del bacio e lo stile del bacio passo a descrivere la tecnica del bacio.
Baciarsi consiste nel socchiudere la bocca, senza esagerare, non sei dal dentista. Le bocche dischiuse si avvicinano.
Sopratutto nel primo bacio con una ragazza nuova è importante l'istante dell'impatto.
Non sei obbligato ad andarle a sbattere contro fratturandole un labbro.
Anzi è più carino, emozionante, lasciare che l'emozione che senti prenda il controllo. Probabilmente ti sentirai tremare dentro, il cuore che batte come una mitragliatrice d'assalto, le mani fredde e sudate, un crampo alla pancia o allo stomaco eccetera eccetera.
OK! E' tutto regolare. Può sembrare assurdo ma il vero motivo per cui ci si bacia è proprio quello di sentire queste sensazioni bomba.
All’inizio ti spaventano perché pensi derivino dalla tua insicurezza e sospetti che sverrai, ti farai la pipì addosso, morirai, le starnuterai in faccia o dirai qualche cazzata mostruosa, e lei non vorrà mai più baciarti e andrà a dire alle sue amiche che sei uno sfigato mondiale.
Butta via tutte queste paranoie e dedicati ad assaporare come l’emozione ti fa perdere il controllo della mente. Osserva come in realtà è molto piacevole questa confusione mentale.
Sei perfettamente in grado di sopravvivere a questo scombussolamento.
E non è niente male. Comunque molto meglio che essere ubriachi.
A questo punto le tue labbra sono a centimetri 1 dalle sue di lei.
OK fermati per un istante e annusa l’aria. Sentirai il profumo della sua pelle. Se è la prima volta che dai un bacio questo ricordo ti accompagnerà per tutta la vita e sarà qualche cosa di tenerissimo che riguarderai con dolcezza. E’ uno dei ricordi essenziali della vita, di quelli che ti puoi portare nella tomba (i ricordi dolci sono l’unica cosa che ti potrai portare nella tomba).
Ora avanza lentamente fino a sfiorare le labbra di lei con le tue.
A mé da molto gusto ascoltare che sensazione provo quando avviene questo impatto sfiorante. E poi saggiare le labbra di lei con una lievissima pressione delle mie. Sentire quanto sono elastiche.
Quindi uno può indugiare a fregarsi le labbra come fanno i cavalli. Oppure può avanzare con la lingua in terra straniera.
Immagina le due bocche socchiuse di profilo: tra le labbra e i denti si forma uno spazio. Lì le lingue si incontrano inizialmente. E tu lecchi la sua lingua.
Se pensi di dare una leccatina a un gelato che ha un gusto nuovo riesci a immaginare come dovrebbe muoversi la lingua. Né troppo dura-rigida né troppo molla-lumaca-morta, né troppo rapida.
E’ una lingua che si muove per andare a sentire il sapore.
Una lingua che cerca il piacere del gusto.
E a questo punto assapora il sapore che ha la ragazza che stai baciando. Ogni donna ha un sapore diverso e trovare il sapore che ti soddisfa veramente è lo scopo della vita. E magari hai la fortuna di trovare il sapore assoluto per te al primo bacio.
Quindi ascolta bene.
Successivamente puoi iniziare a fare i movimenti che vuoi, entrare nella sua bocca con la lingua (senza esagerare sennò la soffochi), oppure scivolare sui suoi denti, arrotolarsi e spintonarsi (delicatamente) con la punta della lingua di lei, bearsi in strofinamenti, leccatine. Alternare momenti in cui sono le lingue a parlarsi ad altri nei quali si parlano le labbra. Ma si può anche indugiare a leccare un labbro.
Ma in effetti quel che fai non è tanto importante. All’inizio uno prova gusto a sperimentare. Poi trovi che ci sono determinati movimenti che ti danno più gusto e che staresti lì a goderteli in eterno, oppure no, magari ti piacerà sempre cambiare. Ma insomma questo non è importante. Non è importante cosa fai ma come lo fai. E questo è un principio che non vale solo per il bacio.
Comunque non serve pensare e progettare i movimenti della lingua. Anzi questo è il vero pericolo, l’errore madornale. L’obiettivo è che la parte inconscia della tua mente si occupi dei movimenti della lingua e delle labbra e che tu (essere razionale) ti limiti a stare lì a goderti e assaporare le sensazioni piacevoli. Se farai così sarai spontaneo, non controllato, e il tuo corpo, che possiede una saggezza di milioni di anni di evoluzione, saprà benissimo trovare i movimenti più piacevoli per te e per lei.
Le donne sentono se stai a fare i piani di come muoverti e non ti lasci andare. E non gli piace. E’ come per il ballare. Se pensi ai movimenti che devi fare fai schifo.
Se ti lasci andare ad ascoltare la musica il tuo corpo si muove per conto suo e tu balli bene e ti senti bene.
Questo è tutto.
Buon Bacio a tutti.
PS
Ricordati che un buon bacio può essere rovinato dall’alito cattivo. Un buon amante si lava i denti e la lingua con cura, mangia caramellane alla menta, foglie di menta, gocce di olio essenziale alla menta o simili. Anche lavarsi le ascelle è utile. E se pensi di arrivare molto lontano lavati bene anche il pisello.
E asciugalo con cura dopo averlo lavato sennò rischi fastidiose irritazioni.
Per altre informazioni sul mondo del sesso vedi www.sessosublime.it.


Il Tibet libero e le Olimpiadi

tratto dal sito www.peacelink.it
Sono stato un atleta per molto tempo. Ho indossato la maglia azzurra e, come tutti gli atleti degni di esser chiamati tali, ho sempre sognato le Olimpiadi. Ma ho un'altra idea di Olimpiadi.

17 marzo 2008 - Flaviano Bianchini

"Assegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei Diritti Umani." Con questa frase, che di fatto ammette le violazioni dei Diritti Umani, Kiu Jingming, vicepresidente del Comitato olimpico di Pechino, riuscì a convincere il CIO ad assegnare alla Cina i Giochi olimpici del 2008.
Ecco. In questi giorni in Tibet potete vedere come la Cina sta sviluppando i Diritti Umani. 

Pochi mesi fa il governo centrale, guidato da Hu Jintao, ex governatore del Tibet che represse nel sangue la rivolta dell'89, ha emanato una legge che consente alla polizia di incarcerare tutti i potenziali dissidenti per evitare brutte figure durante i Giochi. Altra mossa di valorizzazione dei Diritti Umani.
Così come valorizzazione dei Diritti Umani è reprimere nel sangue una rivolta pacifica. O assediare i monasteri dove si rifugiano i monaci. O sparare sulla folla che sfila pacificamente per le strade del Barkor.
Tutti i Paesi occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, si sono lanciati in mirabolanti dichiarazioni di gioia e felicità per l'indipendenza del Kosovo. Ma nessuno mai si pronuncia per l'indipendenza del Tibet. Addirittura in Italia nessun membro del Governo, né dello Stato, né della Chiesa, ha ricevuto il Dalai Lama in visita nel novembre scorso. Il Dalai Lama è venuto in Italia, ha fatto le sue conferenze, ha incontrato gli altri Nobel per la Pace, ha fatto le sue interviste ed è ripartito senza che nessuno lo ricevesse in via ufficiale. Come un "turista" qualsiasi...
Sono stato un atleta per molto tempo. Ho indossato la maglia azzurra e, come tutti gli atleti degni di esser chiamati tali, ho sempre sognato le Olimpiadi. Ma ho un'altra idea di Olimpiadi. Vorrei qui ricordare che nell'antica Grecia durante le Olimpiadi venivano sospese le guerre e che il Sudafrica non ha potuto partecipare ai Giochi fino a quando non ha abolito l'apartheid e che a Mosca '80 gli Stati Uniti non parteciparono e l'Italia partecipò senza bandiera per protestare contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan.
E oggi?
Oggi, non solo si da l'organizzazione dei Giochi al Paese che più in assoluto viola i Diritti Umani, ma nessuno si preoccupa di boicottarli se il governo di questo Paese reprime nel sangue una legittima e pacifica manifestazione di indipendenza di un paese occupato.
Non un solo Paese ha in mente di boicottare i Giochi. E in Italia gli unici partiti politici che si pronunciano in tal senso sono i leghisti che ne approfittano per rilanciare le loro idee di protezionismo economico e i Radicali che da sempre si battono per i Diritti Umani.
Gli altri? Tacciono. O fanno un timido rimprovero alla Cina per la repressione e si augurano che tutto si sistemi al più presto.
Mario Pescante, presidente del CONI, ha addirittura dichiarato che la sua preoccupazione per le Olimpiadi non è il Tibet ma i possibili attentati dei terroristi islamici...
Ci sono diverse manifestazioni davanti alle ambasciate cinesi di tutta Europa; ma, secondo me, non è lì che vanno fatte. Queste manifestazioni bisognerebbe farle davanti ai governi.
Io VOGLIO vedere il nostro governo e i nostri candidati premier fare qualcosa.
VOGLIO vedere i leader mondiali discutere dell'opportunità dei Giochi in Cina.
VOGLIO vedere il CIO discutere di una sede alternativa anche se in extremis.
VOGLIO sentire il CONI che si pronunci sul ritirare i nostri atleti, o quanto meno la nostra bandiera, dalle Olimpiadi.
Nel 2001 furono assegnati i Giochi a Pechino nella speranza che ciò contribuisse a far aprire la Cina al mondo, ed è solo boicottando i giochi che si può far capire alla Cina che per aprirsi al mondo non basta un'economia forte. Ci vuole anche il rispetto dei Diritti Umani.
 

Copyright © Flaviano Bianchini


La Chiesa al suo posto di Rossana Rossanda - il Manifesto

Cari amici,
credo che questo meraviglioso articolo di Rossana Rossanda raccolga molte delle opinioni espresse tra vostri commenti...
redazione
Che campagna elettorale! Poche idee, bassezze, graffi, scuse, perfino Vespa si annoia. Nel Popolo della Liberta gli slogan di sempre sono pieni di disprezzo per l'avversario. Berlusconi aggiunge una prudente allusione ai tempi difficili che verranno - recessione, euro troppo alto, petrolio alle stelle - per cui (ma non lo dice) si stringerà la cinghia. Invece Veltroni gioca la carte delle buone maniere anche se ieri gli è sfuggito un «chi vince comanda», a prova che della democrazia hanno la stessa idea.
Lui però non mette in guardia dalle imminenti vacche magre: macché pericoli provenienti dall'esterno, sono state la sinistra e i centro-sinistra a sbagliare tutto, facendosi legare le mani dalla nefasta ideologia che contrapponeva padroni e operai, proprietari e spossessati, beni privati e beni pubblici. Usciamo da questa paralizzante menzogna! Lo pensa anche Galli della Loggia. Passate le redini in mani più giovani e refrattarie alle fantasie sociali l'Italia rifiorirà.
Bankitalia e l'Ocse informano che abbiamo in Italia i salari più bassi dell'Europa, neanche la Grecia, ma solo Bertinotti raccoglie. Gli altri tacciono perché la Banca Centrale Europea comanda: guai ad alzarli, i salari, sarebbe l'inflazione. I salariati non hanno da fare che una cura dimagrante in attesa di tempi migliori.
Eppure all'aeroporto mi hanno avvicinato due giovani, due facce pulite: Questo Veltroni, quale speranza per noi! E lei che ne pensa? Rispondo ridendo: Il peggio possibile. Sorpresa. Li guardo, due ragazzi cui il leader rinnovatore, le playstation e la tv assicurano che viviamo in un mondo senza conflitti, eccezion fatta per l'amore, la mafia e il terrorismo islamico. Che strada in salita li attende per rimediare alla devastazione di quel minimo di critica dell'economia e di spessore democratico cui eravamo arrivati. 
Non penso agli estremisti, ma a uno come Caffè, uno come Bobbio, miti persone serie, anch'esse consegnate da Silvio e Walter alle pattumiere della storia.
Non stupisce che nella generale piattezza tornino a brillare le religioni con i loro lampi lontani, ma la vicina tentazione di una nuova egemonia. Non tutte, intendiamoci, da noi si agita la chiesa cattolica apostolica romana, cujus regio ejus religio. Ratzinger parla dallo schermo ogni due giorni più la domenica, negli altri predicano i cardinali Bertone e Bagnasco. Degli altri culti approda in tv solo il Dalai Lama, ma perché perseguitato dalla Cina. Non ci arrivano le sue parole. Non la sapienza dell'ebraismo, non quella dei protestanti: la comunità ebraica italiana si fa sentire solo in politica, i secondi sono avvezzi a essere ignorati.
Silvio e Walter e Casini omaggiano più di ogni altro il Sacro soglio, ma con il ritorno del sacro hanno frascheggiato tutti. Politici e filosofi, maschi e femmine pensanti. Adesso che se ne vedono le conseguenze, più interventismo che spiritualità, proporrei alla sinistra di mettere fra le tre o quattro priorità un bel ritorno al laicismo.
Eh sì. Si finisca di traccheggiare con «laicità sì, laicismo no». E' una distinzione inventata da poco, che in parole povere vuol dire: la Chiesa ingoi la separazione dallo stato nei termini costituzionali, purché applicata «con juicio» e con i consueti strappi sottobanco, tipo esenzione dalle tasse e accomodamenti con la scuola privata . Ma ad essa lo stato deve riconoscere la competenza sulla sfera morale e del costume. Il bieco laicismo la nega, una laicità come si deve è tenuta invece a riconoscere l'autorità del papa su questo terreno.
Io penso che questa autorità non vada riconosciuta affatto. Prima di tutto, come si può parlare di etica, di scelte morali, là dove non esiste libertà di coscienza? Mi ha sorpreso che uno dei nostri amici più colti, Massimo Cacciari, abbia definito Karol Woytila come la più alta autorità «morale» dei suoi tempi. Si può parlare di fede, ed è vero che l'esperienza di fede può raggiungere grandi altezze, affascinanti, tragiche. Si può ammettere che sono spesso legati a una «rivelazione» gli squarci sapienziali che intemporalmente ci parlano. Ma fede e sapienzialità implicano una obbedienza che mette duri limiti al sapere critico e ai suoi strumenti, senza i quali non si darebbero né la modernità né un pensiero scientifico e tanto meno politico. Tanto più che a imporre limiti e veti sono le chiese, strutture del tutto terrestri e facilmente prevaricanti. Non hanno persuaso per secoli che il potere terreno fosse la mera proiezione della gerarchia teologica? Non a caso la rivoluzione francese è dovuta passare attraverso l'uccisione del re, autorità che si forgiava su quella celeste e ne era consacrata.
Dalla secolarizzazione la chiesa cattolica apostolica romana non si è mai rimessa. Spento Giovanni XXIII è stato tutto un lento rimuovere quel che ad essa concedeva il Vaticano II. Con Ratzinger la rimozione è diventata precipitosa. Specie in Italia non deflette dal riguadagnare terreno. E' ridicola l'argomentazione che si fa perché il Vaticano ha la sua sede nel nostro paese. In realtà qui ha sede la classe politica borghese più cedevole d'Europa. Il Vaticano neppure tenta in Francia una incursione sulle leggi del 1905 (che sarebbero di utile lettura ai nostri politici) e Zapatero ha messo un alt secco al tentativo di intervenire sulle elezioni in Spagna. Da noi i governi ritirano le leggi appena i vescovi vi mettono il becco.
La vicenda dei rapporti italiani fra stato e chiesa è fin paradossale. Il fascismo ha fatto il Concordato nel modo più cinico: nelle scuole elementari si cominciava con una preghiera ma poi si propinava in tutte le salse una paganissima romanità. Dopo il 1945, il Concordato sarebbe stato abolito se il miscrendente Togliatti non avesse scelto di lasciarlo in piedi per timore di una guerra di religione che isolasse i comunisti, e fu un errore, la guerra ci fu lo stesso, i comunisti furono scomunicati. Sarebbe stato il cattolico De Gasperi ad arginare le velleità integraliste di Gedda, cosa che Pio XII non gli perdonò. Sempre paradossalmente fu Craxi, primo ministro socialista, a confermare e rimaneggiare il Concordato, mentre il credente e praticante Scalfaro fu l'ultimo presidente della repubblica a non inchinarsi al santo soglio. Poi c'è stato il diluvio. Alla morte di Karol Woytila, un capo di stato dietro l'altro finirono in ginocchio, mentre i leader dei partiti di sinistra scoprivano di essere andati a scuola dai salesiani. L'Opus Dei usciva con fragore alla luce dalla clandestinità e la signora Binetti transitava direttamente al Partito democratico.
Ecco dunque una bandiera da raccogliere da parte di una sinistra che voglia restare una cosa seria. Raccogliere bandiere lasciate cadere da qualcun altro ha un suono un po' sinistro, ma afferrare quelle sventolate della chiesa cinguettando con i vescovi è una patente regressione. Fino al ridicolo. Come definire altrimenti la decisione del comune di Roma di non celebrare unioni se non eterosessuali perché il Sacro Soglio è collocato sul suo territorio? Come lasciare che i vescovi mettano il veto a una legge del parlamento sottoposta a referendum senza invitare il Vaticano a restare al suo posto? Come assistere senza aprir bocca ai ripetuti tentativi di questo o quel primate di resuscitare il Non Expedit? Se è un affare interno della Chiesa affossare passo a passo il Vaticano II, umiliando una grande speranza dei credenti, sarà bene un affare interno dello stato legiferare senza interferenze sulla famiglia, sulla sessualità, sulla riproduzione, sul diritto di morire con dignità. Da questi terreni che ineriscono alla più intima libertà anche lo stato dovrebbe ritrarre il piede, rispettando le scelte della persona, e prima di tutto quella delle donne, da sempre ossessione e bersaglio d'una chiesa tutta maschile. Una grande mutazione sta venendo da esse e ne esce mutata anche la concezione della vita e della morte - uno stato moderno, attento, prudente segue questa evoluzione non lascia alla Chiesa di emettere una fatwa alla settimana. Certo, bisogna che abbia un'idea di che cosa sia un'etica pubblica, quella che matura discutendone in libertà e responsabilità, alle soglie del terzo millennio. Ma di questo i leader del «paese normale» non hanno cura.
Loro hanno i «valori». Meno stato più mercato per i beni, meno repubblica più Vaticano. I «valori» di Berlusconi, quelli di Veltroni, quelli di Casini, quelli di Emma Mercegaglia, quelli del cardinal Bagnasco. Se ne fa un gran parlare. Un «valore» accompagna ogni vassallata, ogni porcheria. Se mi si permette (e anche se non mi si permette), molti di noi ne hanno abbastanza. Inciampiamo a ogni passo in valori di latta, mentre si torna a guardare con più disprezzo che un secolo fa alla vita e alla libertà di chi lavora nel frenetico accendersi e spegnersi di migliaia di imprese senza regole. Assimilati ormai ai poveri, cui si deve al più un briciolo di compassione.
Se non è declino morale questo, travestito da affidamento ai principi della Borsa, della Confindustria e di oltretevere, la ragione non ha più corso.


Candidatura per matrimonio con rampollo di casa Berlusconi

Cari Amici,
perchè non unirsi all'iniziativa? scrivete a  [email protected] inviando il vostro curriculum! redazione
Egregio Presidente Berlusconi,
proprio mentre meditavo sul mio futuro lavorativo e sulle incertezze della precarietà è arrivata la Sua magnifica proposta! Sono anni che mi interrogo sul mio avvenire, come riuscirò ad acquistare una casa e a fare una famiglia, senza sobbarcarmi un mutuo ventennale per acquistare un'auto, da accumulare a quello della topaia che potrò permettermi, arrivando alla quarta della settimana del mese cibandomi di pasta all'olio.
Finalmente, l'illuminazione.
 
Trovo davvero generoso da parte del terzo uomo più ricco d'Italia mettere a disposizione i propri figli per risolvere tutti questi affanni in un batter d'occhio!
 
Ho quindi deciso di non perdere tempo e candidarmi ad essere impalmata da uno dei Suoi discendenti.
 
Ho 27 anni, laureata, bella presenza, sorriso da film americano, carattere estroverso e gentile. Ottimo pedegree: la mia famiglia è da sempre collocata politicamente a destra, addirittura un nonno partito volontario per El-Alamein! Parlo fluentemente due lingue, lavo, stiro, cucino.
 
Le confesso, egregio Presidente, di aver avuto qualche titubanza inziale: con quale orgoglio e rispetto di sè una donna potrebbe mai rinunciare ai diritti faticosamente conquistati dalle lotte femministe, alla propria indipendenza e alla propria identità, per diventare concubina di un miliardario? 
 
Ma se questa è l'unica soluzione possibile per il precariato femminile è inutile stare a spaccare il capello in quattro: non c'è problema che l'American Express platinum di un rampollo miliardario non possa risolvere!
 
La ringrazio per avermi offerto la possibilità  di non  far parte di quel 20% di donne che dopo il primo figlio esce defibitivamente dal mercato del lavoro, o della grande quantità di manager capaci che rimangono al palo economicamente e nella propria carriera lavorativa, che quotidianamente combattono in trincea per essere trattate al pari dei colleghi uomini.
 
Mi auguro quindi che vorrà valutare positivamente il mio profilo.
 
In attesa di Suo cortese cenno di riscontro, porgo i più cordiali saluti
 
carlotta nao


Ritorno a Fallujah

Tre anni dopo il devastante attacco degli Stati Uniti il nostro corrispondente è entrato nella città irachena sotto assedio, trovandola senza acqua pulita, corrente elettrica e medicine.

8 febbraio 2008 - Patrick Cockburn
Fonte: Indipendent on-line - http://www.independent.co.uk - 28 gennaio 2008, e 
 Associazione PeaceLink. Tradotto da Annamaria Arlotto

E' più difficile entrare a Fallujah che in qualsiasi altra città del mondo. Per la strada proveniente da Bagdad ho contato 27 posti di blocco, tutti sorvegliati da soldati e poliziotti ben armati . "L'assedio è totale" dice, scuro in volto, il dott. Kamal all'ospedale di Fallujah, mentre stila la lista di ciò che gli occorrerebbe, che comprende di tutto, dalle medicine all'ossigeno e dall'elettricità all'acqua pulita.
L'ultima volta che tentai di entrare a Fallujah in macchina, diversi anni fa, rimasi coinvolto nell'imboscata ad un convoglio americano che trasportava carburante, e dovetti uscire dall'auto a carponi e sdraiarmi sul ciglio della strada insieme all'autista, mentre tra soldati americani e guerriglieri si era aperto il fuoco. La strada adesso è molto più sicura ma a nessuno è concesso di entrare a Fallujah fuorché ai residenti in grado di comprovare che vivono là mediante documenti d'identità dettagliati. La città è isolata dal novembre del 2004, quando i Marines americani vi irruppero con un attacco che l'ha lasciata per la maggior parte in rovina.
Le strade, con i muri butterati dai segni delle pallottole e con gli edifici ridotti ad un cumulo di lastre di cemento, appaiono ancora come se il combattimento fosse cessato da poche settimane.
Sono andato a vedere il vecchio ponte sull'Eufrate dalle cui travi d'acciaio i falluiani avevano impiccato i corpi bruciati di due guardie private americane addette alla sicurezza, uccise dai guerriglieri - l'incidente che fu la scintilla che provocò la prima battaglia di Fallujah. Il ponte, a corsia unica, c'è ancora ed è sovrastato dalle rovine di un edificio bombardato o colpito da granate, il cui tetto, in frantumi, si allunga sulla strada mentre una rete di ferro arrugginita tiene insieme lastroni di cemento.
Il capo della polizia di Fallujah, il colonnello Feisal Ismail Hassan al-Zubai, ha cercato di far vedere che la sua città sta facendo progressi.
Mentre guardavamo il ponte una piccola folla si è radunata . Un anziano col cappotto marrone ha strillato: "non abbiamo l'elettricità, non abbiamo l'acqua!"
Altri hanno confermato che a Fallujah la corrente elettrica c'è per un'ora al giorno. Il colonnello Feisal ha detto che non poteva far molto riguardo ad acqua ed elettricità, ma ha promesso ad un uomo di togliere lo sbarramento fatto col filo metallico davanti al suo ristorante.
Fallujah se la passa forse meglio di prima, ma di strada da fare ne rimane tanta. I medici dell'ospedale confermano che sono diminuiti gli arrivi di vittime di sparatorie o esplosioni di bombe da quando il Movimento Awakening ha espluso al-Qa'ida dalla città negli ultimi sei mesi, ma la gente cammina ancora con cautela per le strade, come se si aspettasse che da un momento all'altro una sparatoria abbia inizio.
Il colonnello Feisal, un ex ufficiale delle Forze Speciali di Saddam Hussein, ammette gioiosamente che prima di essere a capo della polizia "combatteva gli americani". Suo fratello Abu Marouf, un tempo al comando della guerriglia, controlla 13.000 combattenti del Movimento anti al-Qa'ida Awakening, dentro e attorno a Fallujah. Il colonnello ha precisato che le strade di Fallujah non sono proprio sicure, ma il suo convoglio marcia veloce ed è condotto da un poliziotto con il volto coperto da un passamontagna bianca, che da sopra il veicolo e con in mano il fucile intima ai veicoli in arrivo di togliersi di mezzo gesticolando in modo frenetico.
Il commissariato di polizia è un locale ampio e protetto da barriere fatte con cemento e terra. Appena raggiunto il cortile interno abbiamo visto dei cartelli che dicevano che se la battaglia contro al-Qa'ida era finita non li erano però gli arresti. Da un'altra parte del commissariato è apparsa una fila di venti prigionieri, ognuno con gli occhi coperti da una benda bianca e aggrappato ai vestiti del prigioniero davanti. Quei prigionieri mi hanno ricordato le fotografie degli uomini che furono accecati dal gas durante la Prima Guerra Mondiale e che arrancavano dietro un uomo che invece ci vedeva e che era, in quel caso, un secondino della prigione.
Ci sono edifici nuovi sulla via principale. A mangiare andavo in un locale che fa kebab che si chiamava HajiHussein ed era uno dei migliori in Iraq. Ma col perdurare dell'occupazione ho cominciato ad attirare sguardi ostili, e il proprietario mi ha consigliato di mangiare al piano di sopra, in una stanza vuota, per sicurezza; poco dopo il locale è stato distrutto da una bomba americana. Adesso è stato ricostruito e dipinto con colori sgargianti, e sembra che gli affari vadano bene.
Un tempo Fallujah contava 600.000 abitanti: nessuno degli ufficiali in città sembra essere a conoscenza del numero attuale. Il colonnello Feisal è speranzoso riguardo agli investimenti e ci ha portato a vedere un nuovo edificio bianco chiamato Fallujah Business Development Centre, finanziato in parte da una divisione dello US State Department . Alcuni soldati americani alti stavano presidiando una conferenza sullo sviluppo economico. "Ha attratto un investitore americano finora" mi ha detto un consulente americano in divisa, con tono di speranza. "Io sono Sarah e mi occupo di interventi psicologici" mi ha detto un'altra funzionaria statunitense, che ci ha mostrato tutta fiera la nuova Radio Fallujah che aveva appena preso il via.
Dall'altra parte della città abbiamo attraversato il ponte di ferro costruito intorno al 1930 , che rappresenta adesso l'unico collegamento con l'altra sponda dell'Eufrate. Esiste un ponte moderno mezzo miglio in giù sul fiume ma l'esercito americano se ne è impossessato e lo usa, a sentire la gente del posto, come parcheggio per i veicoli. Dall'altra parte del ponte, passate le file di alti giunchi dove coloro che scappavano dalla città durante gli assedi del 2004 provavano a nascondersi, c'è un edificio sventrato dalle bombe dal lato della strada. Dall'altro c'è l'ospedale i cui dirigenti sono stati accusati dai comandanti americani di gonfiare sistematicamente il numero delle vittime del bombardamento americano.
Quando ho domandato cosa manca all'ospedale il dott. Kamal mi ha risposto: "medicine, combustibile, elettricità, generatori di corrente, un sistema per il trattamento delle acque, ossigeno e attrezzatura medica." Difficile non pensare che l'aiuto americano sarebbe stato meglio diretto verso l'ospedale anziché il centro per lo sviluppo economico...
Il colonnello Feisal ha detto che le cose stavano andando meglio, ma intanto era accerchiato da donne vestite di nero che gridavano che i loro bambini non erano stati curati.
"Ogni giorno 20 bambini muoiono qua" , ha detto una di loro, "Sette proprio in questa stanza."
I medici hanno detto che si prendono cura dei loro pazienti meglio che possono. "Gli americani non ci procurano nulla" ha detto una madre che cullava un bambino, "portano solo distruzione".

Note:
Tradotto da Annamaria Arlotta per www.peacelink.it


Lettera a Franca Rame - di Delia Gambelli

Leggendo le lettere recenti pubblicate da Franca Rame, non si può non ripensare al complesso della sua avventura in Senato. E non si può non rimanere impressionati dalla passione politica che ha animato tutta la sua attività.
In un paese in cui ogni giorno i cittadini devono subire lo spettacolo ignominioso e devastante di molti parlamentari spudoratamente interessati solo alla conquista di un potere personale e alla gestione della cosa pubblica come investimento privato, la passione di Franca Rame è un esempio luminoso e confortante. Perché è ispirato inconfutabilmente da un interesse per gli altri e dal desiderio di impegnarsi per aiutare la gente, per cercare di migliorare la situazione di chi più soffre. Da sempre ho ammirato la capacità rarissima di Franca di intervenire nel quotidiano, nel concreto, nel vissuto. Credo che sia questa la differenza con tanti politici che hanno perso ogni contatto con il mondo reale, perché vivono blindati sotto campane di vetro, nei quartieri privilegiati, con macchine e autisti per gli spostamenti, senza mai aver provato le difficoltà di arrivare con lo stipendio alla fine del mese.Penso invece che coloro che intraprendono una carriera politica o amministrativa ad alti livelli dovrebbero firmare una carta che li impegni ad abitare nelle periferie, non al centro, a prendere i mezzi pubblici (magari insieme alle loro guardie private), e a dare in enti di beneficenza o, meglio, in organismi di ricerca, quella parte di stipendio che ecceda i 5000 euro al mese. Una somma che io, come tanti altri Italiani, in una vita di lavoro accanito e duro non vedrò mai!
Come potrebbero non perdere i contatti con il mondo reale persone che godono di tanti privilegi e di condizioni assolutamente diverse da quelle della maggior parte dei cittadini?
Franca Rame ha avuto una carriera straordinaria, ma ha cominciato dalla gavetta, ha pagato un duro prezzo, niente le è mai stato regalato; è stata sempre un modello di onestà; non ha goduto di nessun privilegio. E soprattutto è stata sempre pronta a tirarsi su le maniche, a scendere in piazza e , meglio ancora, ad affrontare direttamente concretamente le questioni. Forse è stato il suo talento teatrale a portarla spontaneamente a identificarsi con tante persone. Ma la caratteristica di Franca è che si identifica sempre e soltanto con i deboli, con chi non ha voce per difendersi o non ne ha i mezzi.
Spero che l’esperienza di Franca Rame in Parlamento possa ripetersi, anche perché Franca è una persona estremamente intelligente a cui non manca la prima caratteristica di ogni vera intelligenza: l’umiltà, la consapevolezza che non si finisce mai di imparare, e che proprio da eventuali errori si possono trarre le risorse per progredire. Abbiamo bisogno di persone splendide e umili come Franca; di persone che non si credono perfette, che prestano davvero attenzione e ascolto, che hanno il desiderio profondo di imparare a essere utili agli altri, perché hanno capito che lì è il senso ultimo della scelta di scendere in politica.
Delia Gambelli


A FUTURA MEMORIA, di Mimmo Grasso

In questo blog ho avuto alcune volte l’occasione di ripetere, quasi a rinforzare i miei stessi neuroni, l’ “assioma” di Dario Fo “Siamo fatti di memoria”. Questo concetto il filosofo Aldo Masullo lo esprime con “paticità”, che potremmo rendere in italiano corrente come “vissuto”, vale a dire qualcosa che, anche se cerchiamo di dimenticarlo, funziona come una spina sotto la pelle. La lingua napoletana, in merito, per quanto sia una lingua poco adatta a esprimere concetti di filosofia e di teoresi, ha una locuzione molto densa: ‘o ppassato, inteso sia come “il passato” (e magari potete vedere anche un signore che è passato poco fa con in mano un po’ di briciole per i passeri) sia come “ciò che è stato patuto”, sofferto, “trasportato sotto” (sub-ferre). “Siamo fatti di memoria” è una locuzione estensibile certamente anche al nostro sangue, al nostro sistema immunitario che “ricordano” come comportarsi se quel virus entra di nuovo in circuito. Qui, tuttavia, non stiamo indicando un meccanismo o un’operazione “stimolo-risposta” o, almeno, non solo: la memoria è la più grande, per intensità ed estensione, facoltà umana. In termini pratici, di funzione d ‘uso, serve spesso per prevedere comportamenti. Dunque la memoria è un fatto sia biologico che intellettivo e sociale, tant’ è che moltissimo tempo fa c’era l’usanza di “abolire la memoria” di qualcuno indesiderato (in sostanza si distruggevano tutti gli atti pubblici e i documenti che lo riguardavano). Ma come ci vengono in mente questi ghirigori? Ricordiamoci di aver pazienza. Molte volte parliamo di “memorie & memoria”, dedichiamo ad essa giornate ad hoc e cerchiamo, come Foscolo nel suo famosissimo poema, di trarre gli auspici dal passato per quanto la nostra sia un’aruspicina più adatta a leggere il fegato (che ci fa male ora come non mai) che il volo degli uccelli. Si fa ricorso alla memoria quando si cerca la  possibilità di rimodulare il nostro vissuto perché sentiamo la distanza “è/dovrebbe essere”, soprattutto tra la vita politica e quella di tutti i giorni; questo perché tra “è” e “dovrebbe essere” c’è un lungo ponte interrotto. Questo ponte sono i valori che ogni generazione, pietra su pietra, ha portato, soffrendo,” patendo”, sulle proprie spalle. Ed ecco allora una bella occasione di riflessione e di interiorizzazione (“paticità”) delle cose qui accennate. Tra i libri che mi sono giunti per questa rubrica aperiodica, segnalo ai lettori “Vento del Sud – Gli antifascisti meridionali nella guerra di Spagna (ed. Istituto Ugo Arcuri, Reggio Calabria), che costituisce la più ampia ricerca finora pubblicata sugli italiani del Sud che si schierarono al fianco dei repubblicani spagnoli durante la guerra civile del 1936-39. Gli autori sono due giovanissime: Ilaria Poerio, mediatrice di pace, che ha percorso i luoghi di guerra ed è attualmente in Vietnam, e Giovanna Sapere, giornalista ed esperta di protezione dell’ambiente. Chi erano  gli italiani andati in Spagna?  Giovanissimi, di varia estrazione sia sociale che culturale o politica, decisero di partire per il  fronte spagnolo sacrificando la propria gioventù. Dovevano, evidentemente, sentirsi molto male durante il fascismo.  Ecco: questo (è un valore che la nostra memoria non dimentica e che pone immediatamente un’altra domanda: fu utile? Si sarebbero aspettati, questi ragazzi, il saccheggio dell’Italia di oggi, dove lo Stato è un affare privato? Sarà il caso di promuovere un’ Etica dello Stato e della società sulla base dei valori di quei giovani? La linea di pietre che mettiamo noi è, almeno, diritta, in sequenza con la loro (ammesso che mettiamo pietre e non, invece, tendiamo a toglierle, ad abolire la memoria)? E’ una valutazione che lascio a chi legge. Nel libro , evidente sintesi di qualche quintale di documenti, si parla con estrema chiarezza di cosa ha rappresentato la guerra di Spagna: un tentativo, da parte delle “Brigate Internazionali” di arginare , in luoghi strategici, l’espansione della dittatura e, nel contempo, il luogo della battaglia per le libertà (quelle vere, non quelle da sigla e da marketing) che, in Italia, erano impossibili. Gli italiani che parteciparono alla guerra civile spagnola, censiti, furono oltre 4.000:: un dato interessante considerando sia il periodo che le difficoltà di “fuoriuscire” essendo ,come si sa, tutti schedati, sia che fossero a favore che contro il regime. Una curiosità: spesso diciamo “il noto critico”, “il noto tal dei tali” ; durante il fascismo se si diceva  o scriveva  “il noto tizio Caio”  si intendeva  “è noto perché schedato, lo conosciamo bene”. La gran parte degli italiani appartenenti alle “Brigate Internazionali” sono restati anonimi ai loro compatrioti e questo libro è un atto di giustizia storica oltre che di saper fare storia. Esso, infatti, si ispira, quanto al metodo, alla scuola di pensiero storiografico degli anni settanta che inizia a rivolgere il suo sguardo non più alle linee dominanti ma ai senza storia, individualmente, persona per persona, cellule per cellula, ricostruendone i relativi “mondi”, i vissuti. E’, appunto questa la storia non scritta ma è anche  quella che rimane nella nostra memoria sotto forma di “patimento”, di indicibile e dunque inscrivibile. Chi fossero questi giovani, quali idee coltivassero, quale fosse il loro ambiente umano, lo si rileva attraverso le lettere di polizia che, se da un lato, per la loro asetticità e lo stile di rapporto, eliminano le persone (ridotte appunto ad oggetti) dall’altro le elevano a uno spessore poematico. Si ha, talvolta, l’impressione di leggere storie di storie intrecciate che seguirono l’epopea di Macondo, dove un personaggio secondario o apparso una sola volta in “Cent’anni di solitudine” diventa il protagonista di un altro romanzo . A fronte di tanti pregiudizi sul Sud, questo lavoro dimostra -per chi ne avesse dubbi-  che l’antifascismo non fu un fenomeno o una faccenda privata del Nord (che peraltro lo creò). Prima che una storia di eventi di fatti o atti,  “Vento del Sud” è una storia di persone.Invito gli amici del blog,per condividere il senso di quanto detto, a guardare con attenzione e a lungo  i volti dei protagonisti sopravvissuti di molte battaglie sul campo ed ideali, sentire il loro “vissuto” di cicatrici, fino a giungere agli occhi, luminosissimi,  delle due autrici  del libro, in un ponte di sguardi taciuti perché la il futuro non sia postumo e la memoria a futura memoria.


Ma in Messico, che ci fa Bella Ciao con la Coca?

(di Fabrizio Lorusso)

 Cosa direste se, tanto per fare un esempio, l’inno nazionale italiano o la marsigliese venissero storpiati e poi utilizzati per pubblicizzare in televisione un prodotto di una nota multinazionale americana, non propriamente tra le più nobili e apprezzate nel mondo? Bene, forse ad alcuni l’iniziativa farebbe semplicemente sorridere mentre per altri risulterebbe un terribile insulto o uno scherzo di cattivo gusto.

Qualcosa di simile sta succedendo in Messico con il nuovo spot di una bibita energetica, venduta anche in Italia, che risponde al nome di Aquarius e che sta diffondendo candidamente in TV la musica e le parole della nostra “Bella Ciao!” in versione ska – punk. Su numerosi blog e forum on-line in lingua spagnola, gruppi di entusiasti adolescenti e video ammiratori, quelli che si dedicano a votare su Internet le “reclame più belle dell’anno”, si sfidano per indovinare il titolo della canzone e poterla possedere scaricandola, “alguien sabe el titulo de la cancion del espot? La quiero…”. Intanto altri tristemente rispondono con un pizzico di compiacimento che sì, sanno tutto di lei, “se llama Bela Chau!, la publicidad es genial”. Poco geniale e divertente sembrerà a chi ancora ricorda e conosce il significato della resistenza, delle sue lotte, i suoi caduti e i suoi simboli. Una proposta promozionale che sarebbe stata improbabile e scandalosa in Italia, in terra azteca sta aprendo mercati senza grandi opposizioni e senza una dovuta opera di controinformazione in proposito.
Il bombardamento mediatico dello spot sta trasformando la nota canzone partigiana, memoria di avvenimenti lontani ma vivi, in un anonimo balletto da spiaggia, successo dell’estate consumabile sotto il sole del tropico come fosse un soft drink amaro e banale. Il problema è che, sebbene non si tratti formalmente di un inno nazionale, la canzone ha assunto nel tempo un ruolo simbolico e affettivo fondamentale per la memoria storica italiana e non solo. In tutta l’America Latina da tempo si ascoltano e si ballano le sue note in italiano e anche nella versione tradotta all’inglese la quale riesce, in qualche modo, a servirsi della “lingua globale” per scavalcare ermetiche frontiere, guadare fiumi militarizzati e varcare muri artificiali e ideologici.
I valori di libertà e speranza che il testo e la musica di Bella Ciao! rappresentano sono, ancora oggi, un baluardo contro tutte le repressioni e le tirannie da cui questa fetta di mondo è stata costantemente minacciata. Già di per sé, l’appropriazione di una melodia popolare per finalità di lucro appare come una scelta discutibile visto che promuove lo sfruttamento di un patrimonio collettivo per un puro e semplice guadagno privato. Ma in questo caso, inoltre, non si possono trascurare i protagonisti di questa sgradevole storia pubblicitaria: da un lato abbiamo la sottomarca Aquarius della Coca-Cola Company la quale, dopo essere diventata fieramente il baluardo di un modello consumista spinto al massimo in tutti gli angoli del globo, sta cercando di ripulire la sua immagine sbandierando una presunta responsabilità sociale, tutta da costruire, nei paesi in cui opera, nonostante le sue condotte siano state, in passato, alquanto discutibili e tendenzialmente monopolistiche; dall’altro c’è la canzone della resistenza partigiana contro l’occupazione nazi – fascista degli ultimi tragici anni del Secondo Conflitto Mondiale in Italia.
L’uso commerciale delle tracce insostituibili della memoria collettiva mondiale è, in fondo, una pratica radicata, una tentazione facile per il marketing soprattutto ora che, con la globalizzazione dell’economia e la rivoluzione nelle telecomunicazioni, servono ed urgono dei modelli interculturali cui attingere e, perché no, dei nomi e dei simboli da trasformare in marche.
Alcune di queste forse, una volta, erano il patrimonio di qualche popolo o cultura locale, e racchiudevano una porzione di un mondo ormai dimenticato. Oppure sintetizzavano cosmovisioni che vengono oggi vituperate nell’ambito di una cultura a senso unico e diventano, quindi, molto più facili da sfruttare e omologare per altri fini, come se fossero degli asset gratuiti pronti per l’uso col minimo sforzo: l’economicità dell’operazione è servita.
La reazione della società civile in Messico è stata, per ora, irrilevante e l’incarico di diffondere l’informazione su Bella Ciao!, i suoi significati e l’uso indebito che se ne sta facendo, è stato rilevato da alcuni gruppi organizzati di italiani all’estero come il collettivo AlterIta che sta organizzando piccoli incontri e raccogliendo le firme affinché tutti possano manifestare il proprio dissenso attraverso il suo blog all’indirizzo http://alteritamessico.blogspot.com/. Si stanno anche raccogliendo tra intellettuali, sindacalisti, accademici e personalità di spicco le adesioni a un comunicato stampa che verrà presto diffuso nei media messicani e italiani con il fine di non dimenticare e semplicemente lasciar perdere come spesso accade quando l’apatia conquista i cuori e la memoria.