Discussione politica

Aborto, il boom degli obiettori

 
di Giuseppe Del Bello, la Repubblica
 
 
Su 1370 donne solo 862 sono state sottosposte a ivg. Una ginecologa: "Di molte altre si perdono le tracce"
«Quando la lista è particolarmente lunga», osserva Nicola Scuteri, uno degli appena quattro specialisti non obiettori del Nuovo Policlinico, «sospendiamo le prenotazioni. Tanto, già lo sappiamo, molte delle donne prenotate non si presenteranno all´appuntamento. E d´altronde è ovvio che finisca così: se una arriva alla nona settimana di gravidanza e si sente rinviata per un mese e più, decide di rivolgersi altrove. Non escludendo una strada illegale».

Napoli e la Campania off limits. Mancano strutture sul territorio, quasi il 90 per cento degli specialisti è obiettore di coscienza e le liste d´attesa sono lunghissime. Per chi vuole (o deve) interrompere una gravidanza, rimangono due alternative: l´ovattata e costosissima clinica privata o il fiorente mercato dell´aborto clandestino. Nel 2007, sempre al Nuovo Policlinico, le sedute operatorie nella Clinica Ostetrica sono calate da 5 a 3, mentre su 1370 donne in lista solo 862 sono state sottoposte a interruzione di gravidanza. E le altre 508? «Alcune si prenotano in più ospedali», risponde il direttore del Dipartimento Materno infantile della Napoli 1 Rosetta Papa, «ma di tante altre si perde traccia». «Sono tante le donne che non avendo trovato disponibilità nelle strutture pubbliche», aggiunge Stefania Cantatore, responsabile dell´Udi campana, «vengono qui. Bene, se interveniamo, il posto esce. E allora mi chiedo: cosa succede a quelle che non si rivolgono a noi?».

A esasperare la drammatica situazione, rincara Scuteri, contribuisce il fatto che finora «non è stata attivata un´accettazione unica regionale per le prenotazioni. Ognuno si arrangia, rivolgendosi ad un presidio diverso». Il disservizio significa anche che diventa impossibile sia il monitoraggio dei tempi d´attesa che lo smistamento delle utenti verso strutture dove c´è più disponibilità. Ad esempio ci sono Asl che hanno un unico punto di riferimento per le Ivg. Come nella Napoli 2 (manager Raffaele Ateniese), in cui è disponibile solo il reparto dell´ospedale La Schiana di Pozzuoli diretto da Nicola Gasbarri. Negli altri comuni, zero. Al Rizzoli di Ischia (dove due anni fa il primario obbiettore Attilio Conte finì al centro di un´inchiesta della magistratura con il suo aiuto Giovanni Strudel per una storia di presunti aborti clandestini) il servizio Ivg non è mai stato istituito. Nell´ospedale di Giugliano (bacino di circa 300 mila residenti), il primario di Ginecologia Salvatore Iorio riconosce che «l´attivazione del servizio è stata sempre rinviata per motivi logistici». Che vuol dire? «Decidemmo di soprassedere in attesa del completamento del reparto (avvenuto tre anni fa, ndr) e nel frattempo di smistare le pazienti a Pozzuoli». «Ma adesso», aggiunge, «ci stiamo attivando e tra poco partiremo».

Da una parte lo scarso numero di medici non obiettori, dall´altra la carenza di presidi: di chi la responsabilità dello sfascio? «Sono anni che i manager avrebbero dovuto darsi da fare», osserva Gasbarro, «e istituire un numero congruo di Ivg nel settore pubblico per soddisfare le richieste. E invece, niente. La situazione è quasi quella di 20 anni fa. Io ho insistito per tre anni prima di ottenere il servizio». Anche per sopperire alle carenze di personale (ginecologi, anestesisti e infermieri), Gasbarri ha una ricetta: «Dando per scontato che la maggioranza sia rappresentata da obiettori, basterebbe far ruotare (pagandoli adeguatamente) quei pochi colleghi che non lo sono nei vari ospedali. O, anche, basterebbe assumere personale ad ore solo per le Ivg. In Piemonte si fa così da anni, come mai qui non è possibile?». Perché, come spiega la Papa, «accade spesso di ritrovarsi con medici che, assunti per le Ivg, dopo soli sei mesi diventano obiettori».
(20 febbraio 2008)


SCUSATE SE E’ POCA Napoli, 23 febbraio Il Giorno del Rifiuto di Mimmo Grasso

E adesso dove la metto questa?”, pensa, corrucciatissimo, Dante mentre regge un sacchettone di spazzatura (e, ovviamente -è un poeta,no?-, che “spazzatura” è perifrastica attiva e futura). E’ indeciso se tenersela in mano o lanciarla cadere sulla capoccia dei passanti. Può anche darsi che la sta portando come souvenir non metaforico del suo viaggio iniziatico, del “rito di passaggio”. E se invece  fosse il contrario, vale a dire che porta con sé la “mappatella” con il necessario per il viaggio che stavolta inizia da Napoli? Immaginiamo quanti “maledetti dannati”  incontrerà laggiù e quale sarà l’ovvio contrappasso.
L’operazione di mettere nel giorno del “munnezza day” quel presente in mano all’ Alighieri (anche se mi pare che, tutto sommato, stia dicendo,nauseato, “scusate se è poca”) è di Giacomo Faiella, patafisico del Collegio Partenopeo (Rettore Mario Persico). La foto ha già girato mezzo mondo e sarebbe divertente analizzarla come “segno” in vari modi. Dante come lo spazzino di Baudelaire? Dante come emblema del “Trionfo della spazzatura” di Montale? Mah. Ovviamente, elaborando altre letture (teoria del caos, globalizzazione) lo stesso sacchetto può sostituire la fiaccola della statua della Libertà di Manhattan. La spazzatura come monumento e memento della morte del pianeta E, infatti, in termini di caos, le rovine delle Twin Towers (segno di sfacelo che, tuttavia, mantiene un valore storico e semantico) valgono le macerie di Napoli (che, appunto “macerano”, sono già ex-rovine).
Il 23 febbraio ero mischiato indifferenziato nella folla dei “munnezza day” di Napoli, in piazza Dante e ho ascoltato sia cose interessantissime che altre che non condivido (nel merito,ahimè, più che nel metodo).
Tra quelle del primo gruppo ci metterei le relazioni degli scienziati (Marfella, Pallante, Ortolani) sottolineando che Pallante ha fatto benissimo a tirare le orecchie ad altri scienziati che non rispettano il criterio che fonda la scienza, e che è l’abduzione di Peirce. In parole semplici, uno scienziato ragiona sempre (e fino a prova contraria)  se…allora, probabilmente e salvo che…. Suscita infatti enorme perplessità che altri addetti ai lavori, incluso i rappresentanti del Ministero della Salute, si mostrino tetragoni ottimisti in ordine ai rischi di malattia generate dai rifiuti tossici che,altrimenti, perché si chiamerebbero tossici, perché hanno la tosse?
Ma, come suol dirsi, occorre trasformare le minacce in opportunità, pensare positivo.  Se comandassi io, preparerei questa  strategia:
1. individuare qualche extracomunitario raccolto a Lampedusa e che abbia la dissenteria.
2.temporeggiare per togliere la spazzatura e aspettare che arrivi il caldo che, notoriamente, aumenta il rischio di epidemie.
3. creare una ditta e dittarelle collegate per la produzione di articoli sanitari e di vaccini (n.b.: chiedere ai comparielli della camorra di contattare la camorra cinese, così facciamo presto a soddisfare la richiesta ).
4. mandare in giro scagnozzi per acquistare tali prodotti fino ad esaurimento scorte e dimostrare, carte alla mano,  al Ministero competente che c’è un problema.
5. far dichiarare a vari primari ( miei debitori perché li ho messi io lì e in quel ruolo) che c’è il  rischio di colera (abbiamo precedenti credibili).
6. chiedere soldi a chi di dovere, così sano e risano la sanità campana (occorre fare presto: già escono articoli sui giornali. Devo fare una riunione coi direttori dei miei giornali  per dirgli che non sono ancora pronto).
7. in caso di risposta negativa, libererei per le strade di Napoli gli extracomunitari di cui sopra, facendoli ricoverare all’ospedale per le malattie infettive, dandone adeguata informazione ai media con l’ordine di monitorare il caso ogni giorno e aumentare le interviste ai luminari della scienza e al popolo (n.b. ricordarsi di farsi fare il riassunto della peste dei Promessi Sposi).(n.b.di n.b.: gli extracomunitari  non rischiano niente perché nessun napoletano se la prenderebbe con un povero cristo).
8. mandare i miei scagnozzi a fare casino sia tra i napoletani che tra gli extracomunitari e creare problemi seri di ordine pubblico.
9. nell’attesa dei soldi chiedere ai miei consulenti finanziari di elaborare un giro di fatture.
10. Arrivano i soldi, dò le percentuali, sistemo la sanità, recupero voti e posso anche alzare  senza storie le barriere per l’immigrazione.
Assurdo, vero? Chissà.
Pochi giorni fa ho letto che Hegel, che tifava per la rivoluzione francese, nel vedere Napoleone-a-Cavallo entrare a Jena, si emozionò e annotò:”Ho visto lo Spirito del mondo a cavallo”. E io, chi cazzo vedo? Qual è lo Spirito-del-mondo che mi privilegia di una “visione”? Mi devo accontentare di Re Ubush.
Ci hanno detto dal palco di piazza Dante che “L’incredibile è vero”, che “ciò che non sapete è l’incredibile”, ecc. Lo ha detto Grillo che ha anche chiesto “diecimila scuse” per come l’Italia ha trattato e tratta Napoli. Accetto le sue scuse, una tantum, perché ne avverto la sincerità, ma non accetterò mai quelle di altri. Dò atto a Grillo di aver centrato il bisogno di riscossa e di “appartenenza” di Napoli. Ciò che ha detto è vero e reale (documentabilissimo): le aziende del Nord hanno, ricorrendo all’offerta della camorra (e dunque rendendosi complici di coloro che dicono di condannare) usato la Campania come sversatoio di rifiuti tossici. Ma ciò, caro Grillo, fa parte della tradizione napoletana, a cominciare dai rifiuti del big-bang. Scherzo. E’ altresì  vero che Napoli & Affini è ancora colonia del Nord cui interessa comunque la raccolta, irriciclata, di  risparmio del sud che viene  investito al nord costringendo le imprese di qui a finire in mano agli strozzini (curiali o camorristi). Basta vedere, ad esempio, quante banche nuove sono state aperte negli ultimi dieci anni; leggere i flussi bankitalia relativi al risparmio  (dove viene raccolto e dove finisce). A proposito (sennò mi scordo: che fine hanno fatto i furbetti del quartierino? Riciclati? E vorremmo dimenticare Sindona, Calvi, Parmalat, Bipop e tantissimi altri?). I “napoletani” sono borsaioli ma non certo scalatori di borsa. Sono d’accordissimo inoltre nel condannare (ma è poco: occorre prenderli in giro)  i Savoia  scappati con la cassa (noblesse oblige) e ai quali non è stato inviato un regale vaffanculo. Hanno osato pensare addirittura a un risarcimento. Ok: facciamo un po’ di conti? D’accordissimo ancora su tante altre cose, ivi incluso il brigantaggio (per togliere ogni cattivo pensiero di resistenza duosiciliana il Piemonte pretendeva una ferma militare di sette anni). La “Questione meridionale” non si risolve da centinaia di anni perché  è una famelica opportunità settentrionale. Altresì, questa città non ha mai avuto un re napoletano. Sempre stranieri -e con l’indispensabile  sigillo papale. Forse solo Federico II si può considerare “napoletano” ed è stato lui, tra l’altro, che ha dato all’Italia la coscienza civile e il senso dello Stato, più tante altre cose modernissime. Tièh.
Marfella ci ha informati, da esperto, sul fatto che  noi, i napolegni, siamo geneticamente più forti perché sangue misto, meticci. Facciamo un po’ l’elenco: italici, osci, fenici, greci, romani, longobardi, bizantini, normanni, svevi, francesi, spagnoli, austriaci (cui si aggiungono gli extracomunitari di oggi, la cui maggiore rappresentanza da cinquant’anni è quella americana, per la presenza della Nato). Si, siamo geneticamente fortissimi. In tremila anni, facendo i conti delle lavandaie ,che sono diretti e non sbagliano, ognuno di questi invasori ha governato circa 10 generazioni a testa, quanto basta per mischiare il sangue come si deve. Conviene tenerci buoni: siamo un’ottima riserva di piatrine, “jettammo  ’o sango”.
Tre  passaggiì di Grillo, nel pieno della vis oratoria, non mi convincono. Anzi, non sono per niente d’accordo e posso accettarli solo come “pro-vocazione” agitatoria, come espediente –retorico-  per creare dissonanza e indurre a riflettere (probare-delectare-flectere- Cic, Quint.).
Il primo: “la camorra sarà anche camorra ma è intelligente e non avrebbe consentito che a Napoli arrivasse l’esercito”. Sorry: la camorra fa schifo e non è intelligente;  è tribale (nel senso di prepaleolitica, bestiale), conosce solo il diritto penale, ragiona esclusivamente  in termini di business, preda. E’ infatti il predatore che si organizza in gruppo per rubare la carcassa agli animali cacciatori, stanchi per le corse nella savana e il lavoro di appostamento. Non si penserà, spero, che il camorrista sia un povero diavolo senz’arte né parte. Il branco della camorra ha arte e parte e dividendi, s’intana a Piazza Affari e nei quartieri-bene. Il capo camorrista è altresì molto borghese. Mi chiedo inoltre cosa ci sia di diverso tra il contratto sottoscritto dall’Impregilo e un’estorsione. Se è vero che la mondezza che giace moribonda per le vie di Napoli appartiene, contrattualmente, all’Impregilo, De Gennaro sta facendo un’appropriazione indebita?
L’esortazione di non andare a votare credo vada nella direzione del “tanto peggio tanto meglio”. Credo che se non si va a votare si aprono spazi proprio a chi si vuole combattere e che certamente se ne impiperà dello scarso consenso numerico eventualmente espresso dal voto. Anzi, lavora meglio e senza controllo.
L’esortazione affinché Napoli chieda la separazione dal resto d’Italia, come ha fatto il Kossovo, può servire solo per far leva sulla presunzione che staccarsi dall’Italia possa contribuire a un senso di identità e sembra conseguente al solo vaffanculismo. Napoli non è il Kossovo, terra sulla quale sono morte migliaia di persone per motivi che non stiamo qui a ripetere (chiamiamola, alla Reich, “peste emozionale”). E, poi, scusate, se è utile che qualcuno vada via, perché non  i veneti o altri, quelli che ci hanno riempito di rifiuti pagando quattro soldi lo smaltimento affidato al malaffare e iscrivendo a bilancio tale costo al valore di mercato,lucrando anche sul differenziale e consolidando il rating (il che dimostra che la mondezza di Napoli è più che utile e che non è vero che non viene differenziata)? Perché la finanza non fa qualche ispezioncina sui loro bilanci e proprio per queste voci? E’ semplice: attraverso le fatture (che avranno una partita Iva) si può risalire alla ditta che ha trasportato i rifiuti e verificare dove li ha sgomberati. Poi, attraverso le analisi di bilancio della stessa e degli estratti conto è abbastanza agevole verificare che fine ha fatto il differenziale di cui sopra. M, comunque, perché dovremmo separarci? Mica siamo leghisti: abbiamo molto rispetto per gli antenati che sono morti per l’Italia. Ma, poi, se dobbiamo separarci, dovremmo anche in questo caso attualizzare i soldi che il Piemonte ha incamerato per la sua  tesoreria, valorizzare le industrie che c’erano, le materie prime passate di mano, ecc. E valorizzare le centinaia di migliaia di vite perse nelle miniere, ecoballe di carne . Un accordo col Belgio, per esempio, prevedeva negli anni  post-bellici tot tonnellate di carbone contro tot minatori del sud. Gli emigrati del Sud con le loro rimesse hanno consentito il boom economico italiano. Se vi capita di vedere la richiesta di attestazione dei redditi che l’INPS invia annualmente ai pensionati, noterete che c’è ancora la voce “indennità ex minatori del Belgio”. Mica occorrerà inserire anche la voce “Indennità Impresilo”? Occorrerà valorizzare, ancora, i giovanissimi napoletani che parteciparono come volontari per liberare la Spagna (4.000, mica bruscolotti). L’elenco, in tutti i settori,  sarebbe lungo e il risarcimento incalcolabile. Non ne vale la pena perché questi soldi non ce li restituiranno  mai e saremmo costretti a dichiarare guerra. Ma qui siamo tradizionalmente guerrafondai tra di noi e pacifisti con l’estero. L’unica realtà europea che non ha mai dichiarato guerra e ha voluto vivere in pace (nei limiti del tempo) è stato il Regno delle due Sicilie.
Comunque, grazie a Grillo l’ Italia sa -in modo diretto e senza fronzoli:è importante- da dove nasce questo pattume, perché Napoli è finita in questa situazione.
E ringrazio, di cuore, Franca Rame, che ha letto la sera del 23 febbraio una lettera indirizzata ad alcuni boss della camorra. Previdente, l’ha solo letta perché, imbucata, sarebbe tornata indietro con l’annotazione “sconosciuto all’indirizzo”. Il testo si trova su questo blog. Su Youtube si può ascoltare e vedere una buona parte della lettura. Mi ha meravigliato il suo trattare i camorristi come persone. Certo, so perfettamente che i vari Sandokan Tanzan e Madrake della camorra una lettera del genere non la leggeranno, neanche se gliela mette il figlio sotto il piatto il giorno di Natale (perché pure loro portano la famiglia in giro per presepi nella settimana dell’avvento). Ma perchè poi dovrebbero leggerla? Non possono farlo, sono analfabeti, sanno solo contare  e misurano il proprio onore con gli zero del conto in banca.
Questa lettera è stata tuttavia ascoltata da migliaia di persone, in diretta, ed ha fatto leva  sul loro profondo sentimento  di civiltà..
Ci sono dei momenti in cui ci sembra di rivivere le situazioni. Si tratta di quelle piccole piramidi di tempo che sono i dejà vu. Vi testimonio il mio: piazza Dante; il palco davanti all’emiciclo di una costruzione in rosso pompeiano; statue sui cornicioni. Port’Alba a sinistra
e il vico (famigerato) Carceri Sanfelice a destra.
Appare Franca, “figura” con un mantello rosso.
Le statue si danno la voce e guardano tutte verso il centro del palco.
Chi c’è con lei, Eleonora Pimentel Fonseca?
Sento aprirsi il portone di Palazzo Serra di Cassano, quello che il Principe, dopo l’impiccagione del figlio Gennaro, rivoluzionario del ’99, volle fosse chiuso per sempre.
E, altresì, mi è sembrato di vedere in quella piazza un tempo “mercatello” e scenario di giochi equestri,  un cavallo dal bel manto nero luminoso scalpitare senza briglie. E’ l’ Equus neapolitanus, il cavallo -furente- di Virgilio e simbolo di Napoli che un altro nobilissimo napoletano, Giuseppe Maresca, ha fatto resuscitare pochi anni fa, dedicandoci la vita. Un miracolo. E’, per capirci, come se un gesso pompeiano improvvisamente si alzasse dalla pomice, dalle rovine e dalle macerie  e, come niente fosse, vi dicesse “Che ora è?”  Non si sa -che anche l’arte equestre è nata a Napoli. Perché l’equus era senza briglie? Perché Carlo d’Angiò, venendo a Napoli, fece apporre, per sfregio all’irruenza dei napoletani, un paio di briglie sulla statua di un famosissimo cavallo di bronzo di cui è rimasta la testa, conservata oggi al Museo Archeologico Nazionale.
“Briglie consapevoli” di allora come lo “sfollagente consapevole” di oggi?
Beh, comunque, tornando a casa e passando davanti al Museo, ho sentito un nitrito.
 
 
 
                                                                                              Mimmo Grasso


Franca Rame al Liceo Mamiani - rassegna stampa


Franca risponde a Salvatore Rizzo...

 Ecco la risposta, terminata solo ieri sera, a causa degli impegni in viglianza RAI.
Eccomi. È finita.

Questa mattina mi sono svegliata presto, ho ascoltato come sempre Prima Pagina alla radio.
La sveglia ha suonato alle 8,30. Via veloce. Entrata in aula 9.15. inserita carta, piegato cappotto e infilato sotto poltrona, come faccio da sempre. (depositarlo al guardaroba prende troppo tempo quando esco). Estratto computer. Attivato ma non mi sono messa immediatamente a lavorare.
Penso: è l’ultimo giorno.
Mi guardo intorno… ci sono stata per quasi 2 anni in questo austero luogo. Austero… si fa per dire: qui ci si insulta, si tirano libri, carta giornali, ci si sputa addosso. No. Oggi, sono certa sarà una giornata calma.
È l’ultima.
Tutti a casa.
Io certamente.
Mi arriva una telefonata delle tante. “senatrice si ricandida?” una risata gentile e chiudo. 
A poco a poco l’emiciclo si popola. Oggi tutti si scambiano saluti. C’è voglia di gentilezza. Bene.
Devo rispondere a una lettera arrivata sul blog, che parla del mio intervento a Napoli. La leggo e la rileggo e non mi trovo. Non mi riconosco.
Sabato mattina siamo partite presto per Napoli (Carlotta Nao e Stefania Divertito mi accompagnavano). In treno estraggo dalla cartellona i cartoncini con scritto a grandi caratteri (sono cieca!) l’intervento che con l’aiuto di Carlotta, Stefania e niente popò di meno che di Roberto Saviano, avevamo scritto.
Ero preoccupata. Ci ho lavorato per giorni. Mi rileggo tutto, taglio, stringo. Sono un po’ nervosa. Arriviamo. Hotel. Vorrei riposarmi un po’, fare rilassarmi… ma non riesco. Riprendo in mano il testo e via a rileggere… misurare i tempi. Non mi sento tranquilla… ho addosso un gran nervosismo. Già la mattina in treno, Beppe Grillo era un po’ impressionato da tutti quei fogli.
Arriva l’ora di entrare in scena. Pino, l’organizzatore, aveva parlato delle 21,15.

Era importante per me, avendo un intervento “pesantino” iniziare presto. Invece Beppe, è andato in palcoscenico all’improvviso. Non che abbia trovato la storia scorretta, ci mancherebbe. La serata era la sua. Quindi ok, anche se il programma era cambiato senza che nessuno lo sapesse. Mi sono detta, andrò dopo di lui. Invece ha presentato Pallante. Figuriamoci, uno straordinario personaggio, che ha tutta la mia stima, più che adatto ad affrontare i temi della serata. (con lui e altri a gran livello, abbiamo fatto un convegno a Jacopo giugno 2006). Il tempo passava e pensavo alla difficoltà di entrare dopo un intervento, (sia il suo che quello della dottoressa che è arrivata dopo me) a mio avviso, non adatto a una piazza, con la gente che se ne stava lì da ore in piedi. Meglio un locale chiuso, più raccolto. Dal canto mio cominciavo a sentire la stanchezza della giornata pesante e di questi ultimi giorni in Senato davvero impegnativi. Avevo anche un gran freddo. Ero soprattutto preoccupata che il mio intervento arrivasse troppo tardi. ( E anche le occhiate che Beppe dava ai miei cartoni non mi facevano bene alla salute ... psicologica. ho sempre recitato o fatto interventi a manifestazioni, improvvisando ma lì, non potevo rischiare di sbagliare).
Mi dispiace di aver detto: quando finisce. Non c’era mancanza di rispetto. Solo preoccupazione. Mi dispiace e molto che Beppe abbia sollecitato Pallante più di una volta a chiudere, dicendo la senatrice ha sonno, ha freddo (ci sono rimasta anche un po’ male, ma sono certa che non avesse intenzione di mettermi a disagio… ma mi ci sono trovata). Beppe è un uomo di teatro e si rendeva conto (almeno credo) che l’intervento era un po’ lungo. Purtroppo, il teatro ha i suoi tempi, quelli sono. Quelli devono essere. Se entri in scena dopo un intervento anche se interessante, ma che ha oltrepassato i tempi, è faticoso riprendersi il pubblico. Quando è toccato a me ero più agitata e nervosa che mai… Infatti ho reso il 10 % delle mie possibilità.

Ce l’ho messa tutta. Ma ripeto e sono più che convinta, ci sono interventi che si possono fare in piazza, ma devono essere stringati. Sono proprio dispiaciuta di come sono andate le cose. Telefonerò all’amico Pallante per scusarmi. E mi scuso anche con voi…
Domani torno a casa. Voglio camminare per un mese di seguito. Parlare con la gente… e magari anche ridere.
Franca
p.s. Salvatore… mi fa piacere che ti sia piaciuta la mia erre moscia… ma… non ce l’ho.
Un bacio


Franca Rame al Liceo Mamiani di Roma

Roma, Liceo Classico Mamiani.
 
Un gruppo di studenti antifascisti ha organizzato l’occupazione del Liceo per parlare della 194. Hanno partecipato alla manifestazione per Silvana a Roma, ne hanno fatta un’altra per loro conto di fronte alla scuola, sollecitando la risposta del locale gruppo di Forza Nuova, che in una spedizione punitiva prende a botte un ragazzo del liceo. Poi nella notte, scritte neofasciste ingiuriose verso Franca Rame e inneggianti alle SS, firmate con una svastica.
Gli studenti sono sconvolti dall’evento, organizzano un’assemblea, alla quale ha partecipato stamane Franca.
 
Per rompere il ghiaccio con gli studenti del Mamiani, ha letto una lettera di Dario Fo sul suo sequestro e ha raccontato quello che si seppe nel '99, quando, pervennero al giudice Salvini documenti riservati. ''Si seppe - ha sostenuto la senatrice - di un capitano dei carabinieri della che, nel '73, dopo aver ricevuto una telefonata sul mio sequestro che lo avvisava che 'la punizione era stata compiuta' aveva brindato. ''Il mio sequestro - ha spiegato la senatrice - era un castigo perche', noi, in scena, raccontavamo le responsabilita' delle stragi. Con 'Soccorso Rosso' io mi occupavo di detenuti: li recuperavamo all'integrazione sociale. Un lavoro micidiale, continuato anche quando i giovani hanno cominciato a sparare, a sbagliare: non condividevamo il loro operato - ha ricordato la Rame - ma ci battevamo per il loro diritto a non essere torturati, in carcere''.
Arriva il momento del suo  monologo, lo stupro: ''Una sera - ha detto - in scena ho chiesto di abbassare le luci e ho cominciato a raccontare quello che avevo subito. Dissi che era una testimonianza su Quotidiano Donna, ma era la mia storia.''
 
La palestra del Mamiani è gremita di studenti, che accolgono Franca con grande emozione e applausi calorosi.
 

A margine dell'incontro, poi, Rame si dichiara soddisfatta dell'interesse dei giovani per temi delicati come quello dell'interruzione volontaria di gravidanza. "Questi ragazzi sono vivi, interessati, stanno riprendendo ad occuparsi di politica e questo e' importante perche' devono conoscere il passato: se non sanno da dove vengono non possono sapere dove stanno andando. Anche le ragazze mi sembrano prese, coinvolte- conclude- parlano di 194 e violenza sessuale in un Paese che sta morendo".
''Ho passato una mattinata che veramente mi e' piaciuta e spero di poter tornare qui con Dario''. Cosi' Franca Rame, ha ringraziato gli studenti ed e' stata subissata dagli applausi, nell'aula magna del Mamiani.
Guarda le foto a questo link:
 


Franca Rame a Napoli: ecco la sua lettera aperta alla Camorra

Vi abbraccio tutti quanti, soprattutto perché vi trovo in ambasce disperati e con la terribile certezza d’esser stati traditi, umiliati, trattati come pupazzi, da scannare e strizzare per farci quattrini.
Perciò, prima, di rivolgermi a voi tutti, vorrei comunicare qualche mio pensiero indignato a gente di gran peso, terribilmente responsabile di tutto ciò che voi state vivendo.
Eccomi. dove siete?
Mi sentite?
Parlo a voi signor Schiavone, detto Sandokan, Bidognètti detto Cicciotto di mezzanottee pure lei, Antonio Iovine, detto “ o ninno”, latitante… E tutti i vostri soci e amici... mi sentite?
Vi voglio parlare…
 
Scusate se vi disturbo, ma vorrei affrontare con voi il problema dell'emergenza dei rifiuti in Campania, ne sapete qualcosa, no? “emergenza” che dura da almeno 14 anni. Ma come è successo che con una progressione a dir poco insensata si è giunti all’attuale insostenibile situazione?
La storia è iniziata negli anni 90, grazie al nuovo business della mondezza, creato dalle imprese del nord bisognose di smaltire i loro rifiuti tossici. E a chi si rivolgono?
A voi, i Casalesi di Sandokan, la famiglia con maggiore vocazione imprenditoriale, a fiutare la nuova possibilità di immenso guadagno.
Non vi bastavano più i milioni e milioni accumulati con cemento, droga, armi, abiti griffati, centri commerciali ecc. L a golosia del mare di denaro che vi sarebbe arrivato ha fatto presto a unire i vostri clan con gli imprenditori che gestiscono l'aspetto legale della faccenda.
Quindi da questo punto eravate tranquilli…E ancora più tranquillizzati dalle coperture delle connivenze politiche. Che ci sono state eccome!
E via che è partita l’operazione “smaltimento rifiuti industriali” di mezza Italia nella vostra terra. Nella vostra terra!
Nel febbraio del 94 nasce il commissariato per l’emergenza: l’amministrazione pubblica ha affidato a imprese private la realizzazione della raccolta differenziata dei rifiuti.
Queste società, spesso improvvisate ad hoc, non avevano nessuna idea, sia tecnica che organizzativa di come si possa realizzare un simile servizio.
Troppo faticoso informarsi e agire correttamente senza ridurre la più bella città del mondo a una pattumiera…E provocare malattie e morte.
Che ha prodotto il commissariato per l’emergenza dal 1994!
soldi - soldi - soldi.
sono passati 14 anni non è successo nulla! Si sta affogando nella mondezza. Per la verità, qualcosa è successo: aziende come la Fibe di Romiti e l’Impregìlo, che pur essendo stati giudicati incapaci dalla commissione tecnica, hanno vinto l’appalto addirittura battendo l’Enel, che aveva punti di credibilità più che notevoli.
l’Impregìlo era incompetente, ma ha vinto ugualmente. Grazie agli appalti in Campania hanno fatto il salto di qualità, milioni di euro per smaltire ecoballe, pardon, per non smaltirle.
Si sono spesi da allora quasi 2 mila milioni di euro: risultato?Lo vediamo: 14 milioni di tonnellate di rifiuti sfuggiti al controllo ufficiale…
Immaginatevi una montagna di 14 mila 600 metri, con una base di tre ettari,e l’E verest è di 8 mila metri..Non portateci per carità i vostri figli a far vacanza!
So che voi, uomini dell’onorata società, offrite ai consorzi un prezzo di smaltimento 50 volte inferiore a quello che paga la regione Campania alla Germania.
ma laggiù a Dusseldorf le mondezze vengono smaltite, qua, grazie a voi, rimangono.
So bene che non siete voi a riempire le strade di spazzatura, so che non siete voi ad aver generato l’emergenza, ma grazie all’emergenza, che vi hanno regalato i politici, avete aumentato i profitti.
 
Molti cittadini, autonomamente, avevano messo in atto la raccolta differenziata ma quasi immediatamente si sono resi conto che la monnezza, veniva sbattuta sui camion in un unico calderone… Tutto rimischiato!
E si sono giustamente sentiti sfottuti e hanno smesso.
Dove erano il comune, la regione, la provincia?Nessuno ha controllato. Nessuno ha saputo…Nessuno ha visto!
 
Si poteva fermare in tempo ‘sta tragedia? Sì. ma non è stato fatto. Dormivano tutti!
Voi, signori delle discariche abusive vi rendete conto di quello che avete messo in piedi? Avete acquistati campi di contadini anziani o malati per approntare sversatoi delle peggiori schifezze industriali che nottetempo raggiungono la Campania.
Silenziosamente avete riempito le discariche di letame tossico, che attraversa l'Italia con bolle di trasporto falsificate quando arrivano certi tir, non si scarica nulla: fatto uscire il conducente, dopo aver sigillato il camion con la fiamma ossidrica, viene calato direttamente nei vasti crateri della discarica
come racconta roberto saviano- e vengono sepolti. Sepolti!
E’ un film dell’orrore. Fantascienza!
 
Siete coscienti di quale terribile pericolo certamente contengono quei tir interrati? Sapete di cosa sono composti quei rifiuti?
Nel casertano e nel napoletano i nas hanno scoperto monnezza prodotta da petrolchimici, da fanghi conciari solo da Santa Croce sull’Arno sono partiti, per ignota destinazione, 5.000 tir carichi di rifiuti. 5.000: tutti sepolti dalle vostre parti? Così come qui da voi abbiamo visto campi e crateri invasi da fanghi dei depuratori di Venezia e di Forlì di proprietà di società a prevalente capitale pubblico. Paese, dopo paese, in ogni luogo avete fatto adottare un veleno.
Grazzanìse è stata prediletta per sversàre i fazzoletti usati per asciugare le mammelle delle vacche munte, Santa Maria i toner toscani, a Capua svérsano persino gli scheletri dei cimiteri di mezza Italia, una balena è stata sversàta a Pianura, persino la Moby Prince, fatta in tante parti è finita smaltita in una cava. Una bella creativita’! E così via.
 
la gente si ammala, crepa mentre voi della onorata società vi stra-arriccchite insozzando indisturbati
e pure governativamente protetti!
Avete regalato alla popolazione tumori ai polmoni, allo stomaco, al fegato, leucemie.
Nelle zone piu' a rischio: aumento della mortalita'  del 9% per gli uomini e del 12% per le donne. Sempre sfigate!
 
A lla morte dell’allevatore Vincenzo Cannavacciuolo, nel suo sangue sono stati riscontrati valori di diossina superiori di 25 volte ai limiti di legge. E’ molto probabile trovare le stesse percentuali nelle bufale di A versa.
 
Vi piace la mozzarella?
 
E dei feti malformati  che mi dite?
Negli otto comuni  a maggiore esposizione allo smaltimento abusivo il rischio di malformazioni fetali supera l’80 % rispetto alla media nazionale.  voi, signori dell’affare redditizio ma pesante, state tutti bene di salute?
Come potete illudervi che l'acqua che bevete non sia appestata dai veleni che le discariche abusive seminano
per la Campania?
Ma certamente voi l’acqua, la farete arrivare dalla Francia bevete Perrier!
Angelica, Chiara, Vincenzo, Cosimo, e i figli di tutti voi, che aria respirano? diossina pure loro? come li nutrite? Dove fanno la spesa le vostre mogli? Fate arrivare ogni giorno in aereo pesce fresco dalla Scozia? E la verdura? Coltivate tutti gli ortaggi in serra? Il pane lo importate o lo fate in casa? Non mangerete certamente quello che viene venduto nei panifici di Scampìa, Secondigliano, Melito, Pianura… Lì si usa la farina di sempre…  Loro fanno il pane per i napoletani la cui vita non conta nulla.
 
I figli…
Ai vostri figli dovete pensare perché non c'è potere che li possa proteggere, denaro che possa corrompere. Sono inermi davanti alle montagne di rifiuti tossici che i loro padri hanno seppellito in Campania. E respirano, respirano: ahha ahah ahaha diossina che il vostro papà abbia commesso un errore? Può essere che ce la facciate a schivare le malattie...E se così non fosse? Siete disposti a vedere i vostri piccoli, mogli, padri, madri, (anche la mamma!?) nipoti, voi compresi ammalarsi pur di mettere soldi in banca?!
Ma a cazzo vi servono tanti soldi?
Già ne possedete a vagoni, in tutto il mondo. Beh vi rimane l’orgoglio di organizzarvi funerali principeschi, carri funebri con 24 cavalli invece dei 12… piume a volontà… paramenti tempestati di smeraldi, brillanti, rubini… il massimo! Ne parleranno fino in America.
Come per le esequie di Tonino Santa Paola, il boss di cosa nostra a Brooklyn… Ma purtroppo sempre defunti siete e nella cassa da morto ci si può portare pochissimo… E voi continuate ad uccidere… Le morti per contaminazione tossica non hanno il rumore degli spari, la cruenza delle esecuzioni.
Sono silenziose, ma altrettanto inesorabili.
 
Disponete del potere di vita e di morte dei compaesani, ma seminando rifiuti, presto sarà lei, la monnezza a disporre anche delle vostre vite.
 
Compresi gli industriali del nord, che credendo di portare i rifiuti qui se ne sarebbero liberati, se li mangeranno con le primizie campane. Quello della monnezza non è un business. E' un vortice che travolgerà tutti. E ‘inutile … vi vedo… E’ inutile che vi strizziate i testicoli….“ la munnezza è oro”.   no. è morte.
 
Strizzate, strizzate…
 
i cittadini hanno assistito impotenti  alle vostre trame intessute con la politica dal bavero bianco. Hanno lanciato allarmi, gridato allo scandalo, condannato i politici, senza risultato alcuno. Campani,  vi ho sentito gridare “cari politici non abbiamo più fiducia. nessuno di voi che abbia sentito la vergogna e il desiderio di sparire, di dimettersi…Ve ne state al vostro posto facendo finta che tutto funzioni a meraviglia mentre Napoli muore! Per sempre questa città avrà di voi una pessima memoria!
 
Non ci resti che tu…
Dove sei De Gennaro… volevo dire, San Gennaro… Stai vedendo e soffrendo per tutto ciò che sta capitando alla tua gente, che ti venera…Anche il cardinale Sepe ti ha chiamato in causa…. Ma tu, niente! Quest’anno  niente miracolo del sangue.
 
Napoli è la tua città datti da fare! Fatti un giro  nelle strepitose ville di chi tiene nelle mani lo sfacelo, la disperazione, la morte.
Vacci mentre dormono, svegliali di soprassalto e fagli assistere al film veloce sulla fetenzìa che hanno combinato.
 
Imponigli di ripulire le strade oberate di rifiuti… Di ripulire la Campania. Mettigli addosso la voglia di "rivoluzionare le loro vite" Fagli nascere il piacere dell’onestà… Il desiderio di poter andare intorno per le strade e i vicoli di questa citta’ senza guardie del corpo, senza doversi nascondere nei bunker.
 
Forza San Gennaro, non deluderci anche tu! Io personalmente tengo parenti stretti qui a Napoli, gente fortemente devota a San Gennaro. E dicono: questo nostro è un santo generoso e innamorato della nostra gente ma guai a chi passa sopra, calpestando la loro vita e chi insulta la loro dignità di uomini e donne pulite, attenti che Gennaro benedice e ama ma non approfittatene …   guai a voi se si incazza!
 
 
 


Codice Gomorra - di Roberto Saviano, l' Espresso

La pericolosità della parola non deriva da quel che è stato scritto, ma da ciò che viene letto. Di questo sono certo. Di questo bisogna convincere chi gestisce l'informazione, la comunicazione. Le organizzazioni criminali non temono mai la parola in sé, ne temono l'ascolto, la diffusione. Che i blog sbraitino, che gli editoriali citino, che le inchieste elenchino nomi e cognomi, tutto questo alle organizzazioni criminali non da fastidio. Niente è più democratico dei cartelli criminali. Parlate pure, il diritto di parlare, di scrivere, di denunciare non vi è negato. Parlate nell'ambito del vostro territorio, ai vostri concittadini, a pochi impegnati o interessati. Si può fare. Anzi in parte si fa pure il loro gioco, così riescono a capire gli orientamenti, dove soffia il vento, su cosa devono calcare la mano e da cosa difendersi. E se qualche giornalista è troppo insistente, troveranno sempre il modo per mostrargli chi comanda, tanto saranno pochi oltre all'interessato a venirne a conoscenza. Perché anche se non lo mettono a tacere, gli mostrano che sono loro il potere e lui è zero fino a quando ciò che scrive non trova attenzione.

Ciò che non deve accadere è proprio questo: che le persone, la parte maggiore, l'opinione pubblica si informi, venga a sapere, che i Tg riportino notizie, che i talk show riferiscano i nomi delle loro aziende, che le sentenze nei loro confronti siano divulgate. Solo le dittature mantengono l'idiozia di perseguitare la scrittura solo perché scrittura, il pensiero in quanto pensiero. Nelle democrazie si censura ignorando e diffamando. Negli ultimi tempi mi sono arrivate molte telefonate e mail da parte di editori che pubblicano libri sulla camorra. E ne sono contento. Sono contento che un fenomeno ignorato per anni dal grande pubblico, tenuto al margine nei lavori scientifici, minimizzato dai vecchi cliché - i cugini scemi della mafia, le disordinate bande di guappi violenti e buffoni - cominci ad
essere raccontato, analizzato, radiografato, divulgato. Per quel che riguarda le mafie i media nazionali le considerano solo quando ci sono molti morti ammazzati.

Oggi però qualcosa è cambiato. È stato il pubblico a decretare che ciò che era sempre accaduto ed era sempre stato ignorato, ora non poteva esserlo più. Oggi, a forza di pubblicare libri sulle mafie e in particolare sulla camorra, libri di ogni stile e genere, con ogni copertina e ogni strillo possibile, capisco che ci sia il rischio che questa nuova attenzione possa presto essere saturata. Comprendo si possa temere l'effetto 'Codice Camorra'. Come pochi anni fa si era creato il fenomeno 'Codice Dan Brown', ossia l'inflazione di decine e decine di succedanei, sinossi, romanzi, saggi, pseudosaggi, compendi, guide, imitazioni e illustrazioni di quello che era stato il filone paraesoterico del successo globale del 'Codice da Vinci' di Dan Brown. Credo però che il fenomeno riguardo alle pubblicazioni sulle mafie non sia equiparabile, e questo a prescindere dalla qualità dei singoli libri che occorre valutare di volta in volta. Può darsi che il chiasso possa essere assordante. Ma mai potrà essere più assordante di quanto sia stato il silenzio. E non mi importa fino a che punto l'interesse degli editori sia quello di sfruttare una tendenza o una moda. Anche una tendenza o una moda è frutto di un clima cambiato, di una domanda che chiede di essere esaudita. E in questo caso la domanda di mercato nasce dalla domanda dei lettori, dal desiderio di capire sempre di più una realtà di questo paese di cui erano all'oscuro.

Chi scrive un libro sulla camorra, o sulla mafia o sull'ndrangheta non è paragonabile a chi stende un giallo sul mistero dei templari o un saggio sul nome del Graal. Non voglio rivendicare una maggiore nobiltà di principio a questo filone, ma semplicemente segnalare che ha avuto il merito di offrire a molti che si occupano dell'argomento, e soprattutto a molti giovani, l'opportunità di uscire da quella condizione di marginalità cui accennavo prima, marginalità che spesso si accompagna a pressioni da parte dei clan. Il meccanismo principale è quello di screditare ancora più che intimorire. Quello più efficace e pericoloso. Chi si occupa di queste vicende è "un buffone, un mitomane che inventa tutto, uno assetato di successo". Cercano voci che erodano la credibilità, che minino l'autorevolezza di una denuncia che li ha colpiti.
 
Una vittima della camorra
Si attengono alla vecchia massima del potere: Divide et impera. Oppure minimizzano: "sono cose risapute", "tutti le sappiamo", "le hanno dette tutti". Ciò che spaventa i clan non è tanto il racconto del crimine diretto, del sangue, della ferocia. La cosa che più temono è veder scoperti i loro affari sul piano nazionale, veder emergere la zona grigia, la realtà di imprenditori che localmente divengono parte fondamentale della politica e dell'informazione. Ecco perché sono così importanti i libri usciti in questo periodo che trattano di camorra, e che sono spesso scritti da cronisti che pur vantando un'esperienza a volte anche lunga, erano tenuti al margine dei dorsi locali, costretti negli spazi risicati della cronaca.

Ho letto 'I boss della camorra' (Newton Compton) scritto da Bruno De Stefano che è un affresco storico, una specie di manuale per chiunque voglia conoscere le biografie dei boss più feroci. Un libro facile da consultare, un libro secco, chiaro, duro. A De Stefano non piace pontificare, né addentrarsi nella fenomenologia dei clan. Gli piacciono i fatti. Eppure le monografie dei boss sembrano spesso racconti frutto di un'immaginazione figlia bastarda di Balzac e Tarantino. Come la storia del boss Vollaro di Portici, detto 'o' Califfo' perché aveva alloggiato tutte le sue amanti in un unico palazzone dove andava come in un harem a scegliere la favorita. 'I boss della camorra' ricostruisce i percorsi giudiziari, e riporta un episodio che molti avranno dimenticato. Quando Piero Chiambretti andò con la sua trasmissione a Marano di Napoli, perché lì vi fu la prima inchiesta in Italia su qualcosa che tutti conoscevano e praticavano, il voto di scambio. A gestirlo era il clan Nuvoletta, clan campano che siede nella cupola di Cosa Nostra, unica famiglia esterna alla Sicilia ad avere questo privilegio. Chiambretti si avvicinò al boss-patriarca Lorenzo Nuvoletta, indagato per voto di scambio oltre che per reati di mafia e gli chiese: "Lei è Lorenzo Nuvoletta?", e lui rispose: "E lei vuole continuare ad essere Piero Chiambretti?".

Un libro che invece trascina nei succhi gastrici della camorra è 'L'ultimo Sangue. Camorra, vittime e carnefici' di Marco Salvia, uscito per Stampa Alternativa. Un libro fatto di narrazione, inchiesta e fotografia, coadiuvato dagli scatti di Stefano Renna che per vent'anni ha fotografato i morti per le strade napoletane. Una discesa nell'inferno quotidiano, di testimonianza e presa diretta, in cui la narrazione si misura con l'immediatezza cruda delle immagini, cerca di aggredire il lettore, di trascinarlo in quelle strade insanguinate dove la normalità ha il volto della guerra. Una scrittura, quella di Salvia, che non lascia spazio a tentennamenti: il lettore deve scegliere, o con lui o contro di lui.

'L'impero della camorra. Vita violenta di Paolo di Lauro' (Newton Compton) del giornalista Simone di Meo, è un'orchestrazione reportagistica delle vicende del boss di Scampia che l'autore ha seguito da vicino nella cronaca giudiziaria. Ricostruisce una storia che sembra romanzesca ma come avviene per ogni realtà spietata combacia con il più impensabile realismo. La storia di un uomo che prima vive al margine, in silenzio, alleandosi e tramando, e poi diventa protagonista di una tra le guerre più sanguinarie. Guerra che è raccontata dal cronista di Meo con uno stile che ricorda la Chicago di Al Capone, tendendo sempre con forza sullo sfondo l'intero quadro della Napoli criminale del passato e del presente. Tocco di genio, la copertina: un pesce che fuma una sigaretta non dirà nulla alla parte maggiore del pubblico, ma per chi conosce la vicenda è eloquentissima. Paolo Di Lauro, infatti, fu arrestato a causa di un pesce, la pezzogna, suo piatto preferito, che una donna ordinò troppo spesso al pescivendolo tenuto sotto controllo dai Carabinieri.

Sul versante scientifico-saggistico invece è uscito 'Napoli... Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema, sceneggiata e neomelodici' (Liguori) di Marcello Ravveduto. Affronta il tema affascinante delmondo dei neomelodici, cantanti che a livello locale sono veri e propri divi che producono un giro d'affari milionario e il cui rapporto con il mondo camorrista oltrepassa quello puramente economico della produzione e diffusione di dischi contraffatti. I neomelodici spesso non sono solo amici dei boss, ma divengono soprattutto i cantori della camorra, gli interpreti di canzoni come ''O latitante', ''O pentito', 'Il mio amico camorrista' e molte altre hit che passate di bocca in bocca cementano la cultura di ampissime zone del territorio.

Il romanzo di Sergio Nazzaro, 'Io per fortuna c'ho la camorra' (Fazi) parte da una domanda retorica che vuol essere una sfida. 'L'Italia sa davvero se esistono Casal di Principe, Mondragone, Frattamaggiore?' - paesi capaci di far cadere governi ma che nessuno realmente conosce nel loro quotidiano, nei capitali che generano, nel sangue che vomitano. Nazzaro attraversa con rabbia l'inferno della sua terra, raccogliendone le storie, storie di tragedie e di violenza e anche quelle minori e quotidiane fra cui una scena per me indimenticabile perché appartiene anche alla mia memoria: ragazzi casalesi che si presentano a una festa e pretendono di entrare gratis solo perché casalesi, perché vivono della guasconeria che la fama del loro paese per diritto di nascita concede.

Legato sempre alle vicende di Casal di Principe, il libro di Rosario Giuè 'Il costo della memoria. Don Peppe Diana. Il prete ucciso dalla camorra' (Edizioni Paoline) racconta vita e assassinio del prete vittima di mafia più trascurato della storia italiana. Il libro non è piaciuto molto alla curia aversana che sembra non amare molto chi tiene a ricordare don Peppino, ucciso per aver scritto un documento intitolato 'Per amore del mio popolo non tacerò'. Nella sua terra, infatti, il suo ricordo è tormentato: basti pensare che una chiesa di San Cipriano d'Aversa ha dedicato una struttura adiacente alla memoria di Dante Passatelli, il re dello zucchero accusato di essere l'imprenditore di fiducia del camorrista Sandokan, e non al prete che non si lasciò impaurire dalla codardia di certe gerarchie ecclesiastiche che coprivano gli interessi dei boss.

È in uscita a breve per Melampo un libro importante, dedicato alla memoria delle vittime innocenti della camorra: 'Vite spezzate' di Raffaele Sardo. Racconta il coraggio di decine di caduti nella guerra contro i clan di cui questo paese non si ricorda non per censura ma per qualcosa di più pericoloso: per indifferenza e per l'incapacità di dare valore a storie che non capisce e quindi non sa riconoscere. E invece c'è bisogno di ricordare e far conoscere queste vite, non solo per rendere giustizia a chi è stato ucciso, ma anche per mostrare che persino in territori dominati dalla camorra non tutti arrivano a piegarsi al suo potere.

Da Forcella invece sono usciti due altri libri che ne raccontano la drammaticità, facendo divenire il quartiere nel cuore di Napoli metafora del male della città intera e della sua possibile speranza. 'Forcella. Tra inclusione ed esclusione sociale' (Guida) è scritto da don Luigi Merola, il giovane prete finito sotto scorta dopo aver preso dal pulpito posizioni contro i Giuliano e i Mazzarella che dominavano il quartiere. Merola racconta il quotidiano di Forcella, cuore criminale di Napoli, ma al contempo generatore delle energie più vive che potrebbero, secondo l'autore, essere il vero antidoto al potere dei clan.

Anche il 'Diario di Annalisa' a cura di Matilde Andolfi e Mario Fabbroni (Pironti), negli ultimi mesi finito fuori catalogo ma ora tornato in libreria, è un documento raro e commovente: traccia la memoria di una ragazzina come altre che il solo fatto di essere cresciuta a Forcella condanna a morte. Nelle pagine del 'Diario' di Annalisa emerge il profilo di una ragazza che vive il clima di un quartiere difficile e sente avvicinarsi un destino fosco cui cerca di reagire con l'allegria e la voglia di vivere.

'Napoli in guerra. Analisi del fenomeno camorristico partenopeo' (Cuzzolin), di Attilio Iannuzzo, affresca con una scrittura disciplinata una città in guerra,una guerra che viene arginata non dalle polemiche politiche, ma da chi riesce a fronteggiarla con il fare quotidiano e reale, mentre i figli dei boss sempre più divengono l'unica borghesia vincente del territorio. In questo libro, se si omettessero le parole Napoli e camorra, sembrerebbe di trovarsi dinnanzi al racconto di un paese sudamericano, o forse persino mediorientale, anche se occorre ricordare che, come evidenziarono alcuni quotidiani stranieri nei giorni della mattanza di Scampia, vi erano più morti a Napoli che a Baghdad.
Anche sui rifiuti sono usciti alcuni libri interessanti che avrebbero potuto aiutare i giornalisti disorientati dalle emergenze della monnezza napoletana 'Le vie infinite dei rifiuti' (altrenotizie.org, ma a breve riedito da Rinascita Editore) di Alessandro Iacuelli, un giovane fisico che ha deciso di seguire da vicino la scia dei rifiuti campani. Il libro è una sorta di dedalo che ricostruisce storicamente la vicenda, le contraddizioni nate dell'incapacità amministrativa, gli errori madornali dei commissari, l'aumento dei tumori, la scelta delle discariche, e soprattutto il fatto che da anni si sapeva (e ci si speculava sopra) che prima o poi avrebbero occluso ogni spazio pubblico. Iacuelli riesce a dare una descrizione chiara e leggibile della questione dei rifiuti in Campania. Sempre sui rifiuti, si segnala l'uscita di 'Monnezzopoli. La grande truffa' (Pironti) di Paolo Chiariello, giornalista di Sky24. Un racconto dettagliato dello spreco più grande avvenuto nel Mezzogiorno negli ultimi vent'anni, ossia i 2 mila milioni di euro concessi per risolvere il problema campano e drenati da anni di corruzione e mala-amministrazione.

E poi i documentari, di ogni tipo e qualità ma capaci tutti, quelli più eleganti e quelli più spartani, di colmare il vuoto di immagini che li precedeva. Fondamentale per aprire gli occhi sull'orrore è 'Biutiful cauntri' di Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero: mostra la moria apocalittica di greggi e uomini e fa ascoltare, attraverso intercettazioni telefoniche, gli accenti inequivocabilmente nordici di chi impartisce l'ordine di far sversare nelle campagne campane i rifiuti tossici. E poi ''O Sistema' (Rizzoli) di Matteo Scanni e Oliva, che ha il merito di offrire filmati interessanti e prima di allora dimenticati negli archivi della Rai o addirittura completamente ignorati: le ville dei boss, quelle di Sandokan e Walterino Schiavone, le scene di donne disperate davanti ai cadaveri dei mariti uccisi. Poi c'è 'La Santa, Viaggio nella 'ndrangheta sconosciuta' (Rizzoli) fatta sempre da Oliva e da un cronista di razza come Enrico Fierro. In questo dvd essenziale e militante, si delinea il profilo di una realtà fin troppo sconosciuta con l'aiuto di strumenti documentari semplici, ma di un'efficacia impressionante, come le intercettazioni telefoniche. È ad esempio una vera chicca sentire i narcos calabresi parlare tra loro in codice alfanumerico.

Enrico Fierro è anche autore di un libro sul caso 'Fortugno - Ammazzati l'Onorevole' (Baldini Castoldi Dalai), uno di quei testi che possono essere usati come strumenti indispensabili da tenere sempre in casa, come le cassette degli attrezzi che tutti hanno in qualche ripostiglio. Il libro cerca di dipanare il garbuglio di affari criminali e interessi politici che accompagnano questo caso irrisolto e quando arrivi all'ultima pagina quasi non credi alle cose che vi sono scritte. E invece è la verità di questo paese. Contorta, intricata, labirintica e spesso banale. Come non credi sino in fondo a quel che vedi nel documentario 'Napoli vita morte e miracoli' di Mauro Parissone e Roberto Burchielli dell'agenzia h24, mandato in onda qualche tempo fa su La7, dove gli autori raccontano i 'falchi' della polizia che in moto seguono le vicende dellaguerra di strada napoletana. Ci sono le riflessioni della Napoli borghese riunita intorno a un tavolo e i ragazzini di Montesanto che prima di concedersi alle telecamere premettono: "Se pronunciate la parola camorra smettiamo di parlare".

Un capitolo a parte meritano invece i libri che stanno dando alle stampe Antonio Nicaso e Nicola Gratteri. Il primo è il giornalista numero uno per competenza circa la penetrazione della 'ndrangheta nel mondo, il secondo è un magistrato antimafia in prima linea contro le 'ndrine. Nei loro libri si svela come intere fette di economia siano dominate dalle famiglie calabresi. Nel fondamentale 'Fratelli di Sangue' (Pellegrini) i due autori riescono a raccontare la 'ndrangheta con una marea di dati impressionante, poi i riti d'affiliazione, le tappe della carriera degli 'ndranghetisti, le diramazioni internazionali, le guerre, le trasformazioni che hanno portato una mafia agro-pastorale a divenire la prima azienda del narcotraffico mondiale: una delle organizzazioni di cui l'Europa non può più fare a meno, perché dovrebbe rinunciare agli oltre 36 miliardi di euro che ogni anno la 'ndrangheta versa nel settore immobiliare, nelle banche, nel turismo, nei trasporti, nelle assicurazioni del Nord Europa.

E ancora il libro di Antonio Nicaso sulla strage di Duisburg - 'Le radici dell'odio', Aliberti - che riporta l'intera storia di San Luca, da sempre preda delle famiglie 'ndranghetiste, e ne descrive la sedimentazione di affari e sangue sino al massacro tedesco che fece capire all'Europa che la questione mafia la riguarda da vicino. E poi il bel libro 'La società sparente' di Emiliano Morrone e Alessio Saverio, due giovani calabresi originari della città di Gioacchino da Fiore che coraggiosamente- e al costo di pressioni, boicottaggi - chiamano in causa la cultura che porta la loro terra a non lasciare alternative fra un'emigrazione desertificante o l'accettazione della logica 'ndranghetista che penetra in ogni istituzione e in ogni poro. La tesi del libro è nuova e potente:le mafie come responsabili della nuova emigrazione che porta sempre più giovani del sud al nord. Persone che non vogliono compromettersi e vanno via. Spero veramente che libri come questi siano l'avanguardia di una produzione che avrà modo di espandersi, com'è avvenuto con i libri sulla camorra.

La 'ndrangheta è la più inaccessibile delle organizzazioni criminali, più misteriosa di quanto sia mai stata la camorra, e come avveniva per la camorra questo va soltanto a suo vantaggio. Ma non si tratta semplicemente di colmare una lacuna grave. È necessario che l'attenzione sia rivolta costantemente a tutta la rete delle mafie. Se davvero tutta la curiosità si esaurisse in un'ondata effimera da 'Codice Camorra', si finirebbe per fare il loro gioco, un gioco di relazioni ed alleanze globali. Spero quindi che nasceranno libri capaci di illuminare e divulgare ogni aspetto della presenza criminale in questo paese e oltre i suoi confini. Perché è questo di cui abbiamo bisogno. Paolo Borsellino poco prima di venire dilaniato in via d'Amelio scrisse una lettera a degli studenti veneti con cui ci passa il testimone: "Oggi al di là di quello che sarà lo sbocco giudiziario delle indagini, al di là delle eventuali condanne, le inchieste hanno avuto di riflesso una valenza culturale perché sono state diffuse, rese pubbliche. Perché la gente se n'è interessata". Abbiamo bisogno che di questi libri se ne scrivano ancora. E soprattutto che i lettori se ne interessino ancora. Finché questo avviene, c'è speranza.
(19 febbraio 2008)
 


"Io, vedova di guerra, in un Paese senza memoria" La Repubblica, CARLO BONINI

Il marito perso in Iraq, una figlia da crescere, le lacrime e i ricordi
ma anche le malignità della gente: vita di una moglie di caduto in missione

 
 
Il tempo di Alessandra Cellini è due volte maledetto. Come può esserlo solo quello delle vedove di guerra in un Paese in pace che non conosceva guerre da mezzo secolo. Maledetto perché ogni bara avvolta nel tricolore che torna su un C-130 impedisce alla ferita di cominciare anche soltanto a cicatrizzarsi. Maledetto perché il lutto, privato, non si fa mai memoria condivisa, collettiva. Resta un terribile fardello da trascinare in solitudine.

Occasione di chiacchiericcio malvagio, perché, oggi, nella provincia italiana di un Paese in guerra solo con se stesso, dove si fatica ad arrivare alla quarta settimana, si può anche invidiare una vedova di guerra, per quel che la guerra le ha tolto (un marito e un padre) e quel che la guerra le ha dato: un vitalizio, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, una casa in cui far crescere un'orfana.

Alessandra aveva 27 anni e una bimba di 10 mesi, Giorgia, quando il 21 gennaio del 2005, suo marito, Simone Cola, 32 anni, maresciallo dell'aviazione dell'esercito, veniva ucciso nei cieli dell'Iraq. Vivevano a Viterbo, allora, non lontani dalla caserma dove era di stanza Simone. Le immagini di quei giorni sono rimaste le prime e le ultime rubate a una giovane famiglia divisa per sempre. Simone Cola il giorno del matrimonio; Simone Cola in mimetica accanto alla fusoliera del suo elicottero; Alessandra con il capo reclinato sulla spalla del capo dello Stato il giorno dei funerali nel Duomo di Ferentino. Poi, più nulla. Il lutto pubblico ha un suo rituale. I suoi tempi. Tre giorni. Alessandra e la sua bimba sono state ricacciate nel buco di anonimato da cui non avrebbero mai voluto uscire.

Oggi Alessandra ha trent'anni e da tre anni prova ogni giorno a ricominciare a vivere. "Dopo la morte di Simone io e Giorgia lasciammo la casa di Viterbo e tornammo qui dove sono cresciuta, a Ferentino. Da sola non ce la facevo. Ho la fortuna di avere un fratello e una sorella e dei genitori ancora giovani. Per un anno tornai a casa, insieme a loro. Poi, una mattina, capii che non era giusto. Non era giusto per me e soprattutto per mia figlia. Io, lei e Simone eravamo stati una famiglia. Io e lei da sole dovevamo tornare ad essere quello che di quella famiglia restava".

Con la somma che le liquida il ministero della Difesa, Alessandra compra un piccolo appartamento in un dignitoso condominio, abitato da altri cinque vicini e lo intesta a Giorgia. Arreda la casa con gli oggetti e i mobili, che, un anno prima, un camion dell'Esercito aveva caricato in un cassone a Viterbo. Il divano è lo stesso. Il letto matrimoniale è lo stesso. La vetrinetta del salone e le cornici con le foto di una coppia felice con la propria bimba sono le stesse. Anche l'armadio è lo stesso, dove continuano ad essere appesi i vestiti di Simone.

"Solo una cosa non ho avuto il coraggio di fare. Aprire le casse che sono tornate indietro dall'Iraq. Credo siano solo gli indumenti di Simone. Credo. Le tengo una sull'altra. In un angolo. E forse non le aprirò mai. L'unica cosa che ho voluto di quel posto me l'hanno data i colleghi di Simone. Un peluche che aveva comprato per Giorgia".

Nel 2005, Francesco Storace, senatore di An, allora governatore del Lazio, trova ad Alessandra un posto alla "Bic Lazio" di Frosinone, azienda di sostegno allo sviluppo delle imprese. Uno stipendio modesto, ma pur sempre uno stipendio, che, con i 1500 euro di vitalizio riconosciuti alle vedove dei caduti, consente di arrivare alla fine del mese senza affanni. Alessandra comincia ad alzarsi alle sei ogni mattina, dal lunedì al venerdì, per poter essere in ufficio per le 8.30. Sveglia Giorgia, le prepara la colazione, la veste per andare all'asilo.

Un istituto di suore, dove ogni pomeriggio, quando torna a prenderla, le raccontano la giornata di quella bimba. Se e quante volte ha chiesto di vedere il padre. Che cosa ha ascoltato dalla voce dei suoi compagni. Capisce presto che Giorgia non può sopportare separazioni troppo lunghe. Alla "Bic" le concedono il part-time, perché alle tre e mezza del pomeriggio lei possa essere di nuovo davanti al cancello dell'asilo.

"Non è vero che a dieci mesi, quanti ne aveva Giorgia quando morì Simone, i bambini non ricordano. I bambini ricordano, ascoltano e aspettano. Per molto tempo ho avuto solo la forza di dirle che "papà era dovuto salire in cielo da Gesù perché Gesù gli aveva chiesto di aiutarlo con i bambini che erano in cielo con lui". E lei, che sapeva che il padre volava sugli elicotteri, per due anni, ogni volta che vedeva un elicottero su per aria diceva che era il padre che stava andando da Gesù".

Poi è arrivato il giorno in cui la verità ha bussato con la voce di un bambino. "Giorgia è tornata da scuola e mi ha chiesto piangendo se era vero quello che le avevano detto i suoi compagni. Che al papà avevano sparato dei signori cattivi. E io le ho detto che, sì, era vero. E che per questo papà era salito da Gesù. Lei non ha più chiesto, ma continua ad aspettarlo. A chiedere perché sono sempre io che vado a prenderla il pomeriggio a scuola e non il papà, come gli altri bambini. Ci vorrà tempo".

Ci vorranno altre parole che non è semplice trovare e che ad Alessandra, una volta ogni due settimane, non suggerisce un assistente sociale, ma una psicologa dell'esercito, che lei va a trovare al ministero della Difesa.

È a lei che racconta le sue giornate, i suoi colloqui con Giorgia, i sogni e gli incubi che popolano le sue notti. "E' un sostegno fondamentale". È un luogo. È un numero di telefono da comporre quando se ne avverte il bisogno. Perché le vedove di guerra non hanno una rete autonoma, una struttura di volontari che aiuti nella condivisione. Vivono il lutto in clandestinità. Si incrociano, se capita, alla consegna di una medaglia al valore ("Simone ha ricevuto la "croce d'onore alla memoria" nel 2005, dall'allora capo di stato maggiore dell'Esercito Cecchi), di una targa commemorativa, in una camera ardente ("A me capitò di essere in quella di altri quattro elicotteristi a Viterbo"). Accolgono un'altra donna con cui condividere lo stesso dolore con un telegramma, raramente con una telefonata.

"Perché ogni volta significa riprecipitare nello stesso baratro". L'unica famiglia, oltre quella di sangue, resta quella che si è portata via un pezzo della loro vita. L'Esercito, l'Aviazione, la Marina, i Carabinieri. I loro veterani. Ufficiali, sottufficiali, che spesso non riescono a perdonarsi di non essere riusciti a riportare indietro tutti.

È un microcosmo che impasta affetti, dolore, sensi di colpa, oltre il quale c'è il buio e il chiacchiericcio malvagio di un Paese che sa essere feroce, perché ha perso il rispetto di se stesso. Alessandra ha cominciato ad avvertirlo presto. Voci che si gonfiano e che la umiliano. All'angolo di una strada, in un supermercato, nei pettegolezzi da bar. "Mò si lamenta. Ma non ce l'hanno mica mandato al marito. Lo ha fatto per i soldi". "Hai visto la casa? Ha pure il posto fisso... È proprio vero: peggio per chi se ne va, meglio per chi resta". "A un certo punto ho deciso che avrei cominciato a rispondere. Perché tacere avrebbe significato offendere la memoria di Simone. Ucciderlo un'altra volta. E così ho fatto. Così continuo a fare. L'ultima volta che mi è capitato di rispondere l'ho gridato: 'Per me, morire in guerra è come morire in fabbrica'. La vita di un operaio vale la vita di un soldato. Simone stava servendo questo Paese, come lo serve ogni mattina chi esce di casa che è ancora notte per andare a lavorare. Ho la fortuna - e so che è una fortuna - di non essere stata abbandonata dallo Stato, ma non voglio, non è giusto che debba vergognarmene o giustificarmi".

Alessandra non sa se "la cattiveria" (la chiama così) sia figlia del ripudio per una guerra lontana che nessuno ha dichiarato e che la politica continua a chiamare con un altro nome. O della feroce solitudine di chi è vivo, ma per lo Stato resta un invisibile: disoccupato, flessibile o pensionato che sia. Sa una cosa sola. "Che presto inaugurerò un'associazione di volontari che porterà il nome di Simone e comincerà a dare una mano a chi ha bisogno qui, a casa nostra, tra la nostra gente".

Alessandra avrà un motivo in più per ricordare, per rendere riconoscibile pubblicamente il suo lutto. Per provare a dare un senso al tricolore che aveva avvolto la bara di Simone nel suo ultimo viaggio e che lei, qualche settimana fa, ha restituito alla terra. Nel terzo anniversario della morte, Alessandra ha seppellito nuovamente Simone, trasferendolo nella cappella di famiglia che mai aveva immaginato dovesse far costruire. "C'è stata una cerimonia al cimitero. Ho preso la bandiera e ho coperto di nuovo mio marito. Con me, c'era chi mi vuole bene".

(20 febbraio 2008)
 


Dario Fo: che Vescovi orrendi ha la Curia di Bologna


Giù le mani dalla 194!

Uno dei primi temi di questa campagna elettorale è l’interruzione di gravidanza, descritta con toni allarmanti: richiami alla sacralità della vita, minestre riscaldate sui peccati mortali e, “novità”, moratorie anti-aborto.
La donna dipinta dai politici “fans d’Oltretevere” è trattata alla stregua di un’assassina, per mezzo dell’infelice paragone tra pena di morte e aborto.  E’ stato addirittura scomodato un consesso di ginecologi per la produzione di un documento che paragona la 194 a Erode: la legge non consentirebbe le cure dei nati prematuri vivi. Falso. Come ampiamente spiegato dall’ex ministro Veronesi. “non capisco di cosa si voglia discutere. Si sostiene che quando un bambino nasce prematuro bisogna rianimarlo: ma lo sappiamo benissimo! E’ ovvio che un medico debba soccorrere un neonato prematuro. Se sta morendo lo aiuterà a morire, se ce la fa a sopravvivere lo deve aiutare a vivere. Mi sembra implicito. Piuttosto quello che mi sconcerta è l’accostamento che si fa con l’aborto. L’aborto è altra cosa. Aborto significa un’interruzione di gravidanza in cui la madre decide che non vuole far crescere il feto. Nell’aborto il bambino nasce morto. Vogliono rianimare un aborto?»

Anche la televisione, in questa campagna di informazione, ha già preso la sua posizione: Porta a Porta su Lourdes ore 21.00, telegiornali infarciti di notizie sui parti prematuri, e ampio spazio ai richiami papali.

Con tutte le difficoltà di questo Paese, davvero la questione dell’aborto è l’unico problema da risolvere? Aumentano vertiginosamente le violenze contro le donne, i problemi sociali vengono risolti da esercito e polizia; criminalità e droga si diffondono tra i minorenni, ma le trombe del Vaticano insistono: no all’aborto che cancella una vita; come se i reati che accadono tutti i giorni fossero meno gravi o lesivi della vita umana! 

Dopo vent’anni di lotte abbiamo ottenuto la legge 194, che funziona nel suo intento fondamentale: dal 1982, il ricorso all'aborto in Italia è diminuito del 45 per cento. In Italia si praticano annualmente 9,9 aborti ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni, grazie ad questa legge che pone al centro il diritto alla vita e alla salute della donna.
L’aborto clandestino, grazie alla 194, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, si è ridotto oramai a 20/25 mila casi l’anno e questi avvengono per lo più tra donne immigrate o residenti nel Sud, proprio dove si concentrano i casi di obiezione di coscienza. Esistono infatti intere zone della Penisola dove abortire è una vera e propria impresa. In Italia il 57,8% dei ginecologi, il 45,7% degli anestesisti e il 38,1% del personale non medico pratica l’obiezione di coscienza (dati 2003), fino ad arrivare alla paradossale “obiezione di struttura”: interi reparti rifiutano di eseguire aborti per questioni etiche, negando così il diritto di un cittadino che chiede ad una struttura pubblica l'applicazione di una legge vigente.

Sono molte le donne costrette a girare da un ospedale all’altro,da Sud a Nord, da regioni di centro-destra a regione di centro-sinistra, con la loro angoscia, per trovare un medico non obiettore che garantisca un diritto sancito da una legge dello Stato.

Questo, la tv non lo dice.

L’aborto non è come fare una “messimpiega”, è paura, incertezza, sofferenza, una cicatrice che rimane nel cuore tutta la vita. Ma dev’essere un diritto garantito per consentire maternità consapevoli e vite dignitose di bambini indesiderati, che ancora troppo spesso finiscono abbandonati nei cassonetti dell’immondizia.

Chi abortisce è soprattutto giovane, immigrata, spesso minorenne, casalinga, poco istruita e povera. Sarebbe indispensabile garantire alle donne la giusta informazione, metodi anticoncezionali ed  il ricorso a strutture sanitarie pubbliche.
Cari politici in campagna elettorale, abbiate il coraggio di ripartire da qui.

Giù le mani dalla 194!
 


FRANCA RAME: MI UNISCO AD APPELLO ASSOCIAZIONE PORTABORSE A CANDIDARI PREMIER: BASTA COLLABORATORI IN NERO

 Cogliendo spunto dalla lettera che l’associazione portaborse ha inviato ai due candidati premier Veltroni e Berlusconi per chiedere che tra principi di candidabilità nelle liste elettorali vi sia anche l’obbligo di non avere collaboratori in nero, la Senatrice Franca Rame ha voluto formulare la sua richiesta ai due leader: “Nella mia esperienza da Senatrice ho visto un sopruso tra i  più vergognosi: parlamentari, di entrambi gli schieramenti, che in Aula difendono i diritti dei lavoratori e condannano il lavoro sommerso, hanno loro stessi negli uffici collaboratori che intascano una miseria e non hanno alcun tipo di contratto né garanzia. E’ abominevole che questo accada, mi aggiungo quindi all’appello dei collaboratori parlamentari, affinché questo malcostume abbia fine.”

La senatrice Rame, già firmataria di un disegno di legge per l’emersione del nero nelle Istituzioni, così conclude: “ Ho presentato qualche tempo fa un disegno di legge per mettere fine a questa pratica. Ma non è di per sé sconvolgente? Serve una legge per mettere in riga in i parlamentari? Non dovrebbe essere il buonsenso a spingere i rappresentati dei cittadini a non avere collaboratori in nero?”
 
Ecco le due lettere, che l'Associazione Portaborse ha voluto inviare ai due candidati Premier:
 
Gentilissimo Onorevole Berlusconi,
la nostra Associazione è per sua natura apartitica,  pertanto questo nostro appello è stato rivolto anche all’On. Veltroni.
La posizione dei collaboratori parlamentari non ha ancora trovato una soluzione.
Chiediamo che ci venga riconosciuta la natura dipendente del rapporto di lavoro, unica tipologia di contratto in grado di garantire i diritti essenziali per  chi svolge questo particolare lavoro quale sua unica ed esclusiva occupazione, già pesantemente penalizzato dalla precarietà legata alla durata delle Legislature .
Sappiamo che state lavorando alla determinazione dei criteri per l’accettazione delle candidature. Appurato che a livello istituzionale abbiamo ricevuto un chiaro segnale di
indifferenza (nonostante la presentazione del DDL sulla regolamentazione del rapporto, che peraltro non ci tutela affatto!) siamo a chiederLe a viva voce di voler valutare l’ipotesi di imporre ai futuri eletti l’utilizzo del rimborso forfetario per spese di segreteria, percepito mensilmente (€ 4190 per la Camera e € 4.678,36 per il
Senato), esclusivamente per pagare i propri collaboratori con un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, gestito dal Gruppo di appartenenza.
Darebbe lavoro a più persone, con l’emersione definitiva del sommerso dalle Istituzioni, a tutt’oggi ancora presente, ci riconoscerebbe la dignità di lavoratori al
pari di tutte le altre categorie!!
Avrebbe l’opportunità di dare un segnale importante agli elettori, di lealtà, di coerenza e di risposta alla forte richiesta da parte dell’opinione pubblica di rispetto di un codice di etica politica. Potrebbe così garantire la trasparenza nell’utilizzo di somme rilevanti, sulle quali  non è mai stato chiesto a nessun parlamentare di renderne conto e la cui destinazione, eventualmente diversa dalla retribuzione del collaboratore, non trova alcuna giustificazione se non negli interessi strettamente personali e non istituzionali o politici. Crediamo che l’indennità e i vari rimborsi a cui hanno diritto siano più che sufficienti a garantire lo svolgimento del mandato, e noi la realtà la conosciamo bene!
Ringraziando per l’attenzione e fiduciosi di un Suo riscontro, salutiamo con cordialità,
Associazione Collaboratori Parlamentari
Gentilissimo on. Veltroni,

la nostra associazione si batte da anni per il rispetto dei diritti dei collaboratori parlamentari. Per una maggiore efficacia della nostra azione abbiamo scelto di non far riferimento a nessun partito. Negli ultimi mesi, grazie anche ad inchieste televisive come quella di Report, si è parlato molto della natura non solo precaria ma del tutto
illegale dell’attività svolta dagli addetti alle segreterie di deputati e senatori. Al grande clamore sui media però non è seguita nessuna decisione concreta.

Sappiamo che nel Partito Democratico state lavorando alla realizzazione delle liste elettorali per le elezioni del 13 aprile, liste che saranno compilate con criteri innovativi:
tra gli attuali deputati saranno candidati solo coloro che hanno raggiunto un limitato numero di legislature, sarà dato spazio a rappresentanti del mondo del lavoro e della
cultura così come sarà garantita l’alternanza uomo-donna. Le chiediamo che tra questi “criteri di candidabilità” ne venisse aggiunto uno: il candidato nelle liste del Pd si deve impegnare formalmente a spendere, una volta eletto, il rimborso mensile forfetario per il rapporto tra eletto e elettore (pari a 4190 € per la Camera e a 4.678,36 € per il Senato) esclusivamente per pagare i propri collaboratori con un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, gestito dal Gruppo di appartenenza. Una
scelta del genere darebbe una forte caratterizzazione etica al nascente Pd, permetterebbe l’emersione del lavoro sommerso nelle Istituzioni e riconoscerebbe ai collaboratori parlamentari la dignità di lavoratori al pari di tutte le altre categorie. Dareste anche un segnale importante agli elettori di lealtà, di coerenza e di risposta alla forte richiesta da parte dell’opinione pubblica di rispetto di un codice di etica politica. Verrebbe garantita la trasparenza nell’utilizzo di somme rilevanti, sulle quali
non è mai stato chiesto a nessun parlamentare di renderne conto e la cui destinazione, eventualmente diversa dalla retribuzione del collaboratore, non trova alcuna giustificazione.

Ringraziando per l’attenzione e fiduciosi di un suo riscontro, salutiamo con cordialità
   Associazione Collaboratori  Parlamentari


AL PRESIDENTE PRODI DA FRANCA RAME

 guarda qui la manchette di Repubblica!8 FEBBRAIO ROMA Gentile presidente Prodi, mi scusi se la disturbo, ma non posso farne a meno: ho una domanda da porLe che riguarda un grosso problema morale a cui La prego cortesemente di rispondere. Sono giorni che con grande malessere e malinconia, mi ritrovo a ragionare da sola sul susseguirsi degli avvenimenti, cercando di ricostruire come si sia arrivati a questa catastrofica situazione. Per capirci qualcosa dobbiamo partire dall’inizio della storia, rivederci i passi salienti della XV legislatura. Ricordo in quanti siamo andati alle urne sentendo il dovere di allontanare il rischio di un nuovo governo Berlusconi, e con lui tutte le sue leggi vergogna e il rosario di sciagure che ci ha imposto a proprio vantaggio. RitenendoLa persona onesta leale e capace, gli elettori confidavano nella realizzazione di almeno una buona parte delle 280 pagine del programma dell’Unione, dove già a pagina 18 si parla di conflitto d’interessi. Questa non era una vaga promessa ma un impegno sacrosanto che si assumeva coi Suoi elettori. Un impegno ribadito con forza subito dopo la vittoria elettorale, e prima di vestire la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne è passato del tempo, quasi due anni, ma di questo programma solo una parte ha visto la luce. Oltretutto, sui problemi più scottanti non si è neppure iniziato un dibattito, anzi si sono accantonati come si fa con i quesiti fastidiosi. Come mai? Da cosa è stato causato questo “accantonamento” dei molti problemi? Io mi rifiuto assolutamente di ritenerLa un giocoliere da Porta a Porta, che fa contratti con gli italiani e poi se la ride alle loro spalle. Temo piuttosto che Lei non abbia potuto tener fede al Suo programma perché a qualcuno della coalizione di sinistra o, meglio, sinistra-centrodestra non andava bene. Il Suo torto Presidente, mi permetta l’ardire e mi scusi, è stato quello di non denunciare subito, pubblicamente, le difficoltà in cui si veniva a trovare, a costo di recarsi in televisione e, a reti unificate, svelare la situazione, con un discorso tipo questo: “Mi rivolgo a voi, cittadini democratici che mi avete eletto vostro Presidente certi che avrei mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale. Promesse che era mia profonda intenzione attuare, ma purtroppo mi è stato impedito. Sto a Palazzo Chigi, sì, ma in una condizione che ben si potrebbe definire di “libertà limitata”. I miei custodi sono coloro che non gradiscono cambiamenti sostanziali. Essi anelano piuttosto a poltrone, privilegi e affari. Ecco i nomi: …..” e doveva fare veramente i nomi, caro Presidente! Credo che Lei, Presidente, più di una volta abbia pensato veramente di dar fiato a questa denuncia, ma il senso di responsabilità e il timore per un futuro negativo per il Paese glieLo hanno impedito. Però a questo punto, Lei non se ne può andare con un indice di gradimento che non si merita, come non merita che si provino sfiducia e senso d’ironia verso la Sua persona. Quante volte è stato insultato, disprezzato e profondamente offeso? No, non può andarsene così, tra i lazzi di tanti rozzi-cafoni che ahimè ci accompagneranno negli anni futuri. La rispetto troppo per accettarlo. Caro Presidente, lei ha il dovere, l’obbligo di riacquistare la credibilità e la considerazione che si merita. C’è una sola strada da percorrere, anche se faticosa. Ma lo deve al Paese: fuori i nomi di chi Le ha impedito di portare a termine gli obiettivi prefissati e soprattutto le subdole scantonate ricattatorie con le quali è stato indotto ad affossare le parti essenziali del programma. E’ indispensabile che i Suoi elettori siano consci d’ogni pressione alla quale ha dovuto adattarsi e cedere. Dobbiamo sapere quali sono gli onorevoli che, sia in Parlamento che al Governo hanno materialmente fatto opposizione alla realizzazione di misure fondamentali per il cambiamento del nostro Paese. È un diritto che ci spetta. E Lei, professor Prodi, questo atto ce lo deve. Non solo per onorare la nostra lealtà ma anche la Sua. Il suo silenzio è sicuramente un gesto di fairplay nei confronti dei suoi avversari, ma in questo modo ci lascia nelle loro mani! Chi Le ha imposto quel numero spropositato di sottosegretari, ministri con portafoglio e senza portafoglio? Chi si è opposto all’abbattimento dei costi della politica? Chi ha bloccato, nei fatti, la più severa applicazione della riforma in materia di sicurezza sul lavoro? Chi sono le persone che hanno vanificato la realizzazione dei DICO? Chi ha voluto la vergogna dell’indulto di tre anni? Chi le ha tirato la giacchetta per tentare di portare a termine una legge-bavaglio sulle intercettazioni? Chi ha voluto il commissario De Gennaro a Napoli, il super-poliziotto di buona memoria alcuna in materia di gestione dei rifiuti? Chi si è messo di traverso per bloccare la tassazione delle rendite finanziarie? Chi ha impedito un serio confronto sulle missioni all’estero? E sulla base di Vicenza? Chi Le ha fatto ingoiare l’accettazione di quel impegno capestro? Tutte scelte soltanto Sue? Ma chi ci può credere?! Come diceva Socrate: “Solo rovesciando la tunica lisa si può leggere con chiarezza la storia di chi l’indossava.” Quindi sarebbe davvero utile che Lei spiegasse pubblicamente a tutti i cittadini italiani le vere ragioni che hanno portato prima al giornaliero logoramento e poi alla caduta del Governo da Lei presieduto. Non può tacere i motivi veri della crisi, altrimenti permetterebbe che coloro che hanno deliberatamente affossato il Suo Esecutivo, possano tranquillamente continuare ad abbattere qualsiasi tentativo serio di modificare la situazione di grave deterioramento, politico, economico e sociale, del nostro Paese. E non mi riferisco soltanto a responsabilità dell’opposizione ben organizzata (questo è il mestiere del polo conservatore!) ma piuttosto al tradimento messo in atto da elementi di governo in combutta con ambigui faccendieri. Se non si assume, una volta per tutte, il coraggio politico di fare chiarezza, ci troveremo come sempre a roteare nel cerchio dell’ignavia, dal quale non si uscirà mai. Le avvisaglie di questo torbido clima, che alla fine ci ha portato alla débâcle, ci erano apparse palesi fin dall’inizio di questa Legislatura: dal primo giorno in Senato, quando dovevamo eleggerne il Presidente. Si ricorda le tre votazioni andate a vuoto? Tre votazioni! Per tre volte i Suoi senatori, sbagliavano il nome o il cognome: Franco Marini (il prescelto) con Francesco Marini o Giulio Marini o Ignazio Marino, con l’aggiunta di schede bianche. Insomma, i numeri non c’erano. La seduta è finita a tarda notte senza nulla di fatto. Quando “novella senatrice” chiedevo: “Ma che sta succedendo? Come può accadere che sbaglino? Non è difficile!” mi si rispondeva: “Qualcuno della nostra coalizione manda messaggi: richieste rivolte al Presidente del Consiglio. Vogliono qualcosa, stanno bussando e attendono risposta come a tre sette! Finché non l’avranno ottenuta, niente Presidente!” “Ho capito! – ho esclamato – E’ un gioco al ricatto! Mio Dio, ma dove sono capitata?! E’ questa la politica?” Se tanto mi dà tanto mi domandavo: quante telefonate in codice avrà ricevuto, Presidente, e pressioni, e messaggi: “Io do, tu mi dai… noi ti appoggiamo, tu ci favorisci. Quanti sottosegretari sei disposto a sistemarci? Quanti ministeri? Quali favori?” Insomma, la solita danza da pochade con porte, portoni e portali che si aprono e chiudono in tempo e contrattempo. Temo che tutto quanto è successo sotto i miei occhi da neofita stupita, in questi 23 mesi si sia ripetuto a tormentone: “O mi favorisci o mi astengo e tu inciampi e vai giù piatto a terra”. La partita è chiusa, d’accordo… E che facciamo? Ce ne andiamo mesti per non aver reagito con solerzia all’andazzo del prender tempo nella speranza d’arrangiare ogni situazione? Io non credo si possa rimontare da sotterrati. So che è duro, ma questo è il tempo di non accettare supinamente, senza un moto di orgoglio, d’esser gettati nella discarica dei refuses politici e soprattutto è ora di denunciare le responsabilità di chi all’interno della coalizione ha remato contro, trascinando il Paese a questa rovina, evitando di incolpare la malasorte che sghignazza sempre nell’angolo basso della storia. Ora è “solo” Presidente. E’ il Suo momento. Lei deve finalmente parlare. Deve dare una risposta decisa alla domanda che in tanti Le poniamo: “Perché non ha reagito alle imposizioni ricattatorie da subito… perché non si è impegnato con tutte le sue forze e sul conflitto d’interessi e sulle leggi vergogna?” Attendiamo in TANTI una risposta. Con stima Franca Rame
 


Contraddizioni in seno ai teodem

 
di Ida Dominijanni - Il Manifesto

Era solo pochi mesi fa, quando il coro transatlantico teodem predicava che la civiltà di un popolo si misura dal rapporto con le donne: si trattava di combattere l'Islam fingendosi femministissimi paladini delle donne velate. Non ci avevamo creduto, e a buon vedere. Oggi, Ratzinger intona e il coro teodem esegue: «La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita». Anche contro o a prescindere dalle donne? Sì, perché le donne sono, in atto o in potenza, delle assassine. Era solo pochi mesi fa, e anche pochi giorni, quando papa Ratzinger, all'università di Ratisbona come nel discorso mancato alla Sapienza di Roma, accusava la ragione illuminista moderna di avere perso la luce della fede, e di avere spalancato le porte all'irrazionalismo relativista postmoderno, abitato, fra gli altri, dalle femministe che distinguono la sessualità dalla procreazione e talvolta perfino dal genere. Oggi il refrain cambia, e pur di riunificare sesso, procreazione e matrimonio il coro teodem (si veda l'intervista del Foglio di domenica al cardinal Caffarra) invoca la ragione illuminista moderna contro il «collasso ontologico» postmoderno che ha spalancato le porte alla cultura abortista. E agita il diritto individualista moderno, che dovrebbe riconoscere al feto lo stesso statuto di un individuo adulto, contro l'etica relazionale femminista che vede nella gestazione un rapporto inscindibile fra il feto e la madre e lascia a quest'ultima la parola decisiva sulla sua prosecuzione.
Era solo pochi anni fa, quando il coro vaticano, teocon e teodem passò come un carrarmato sui desideri procreativi femminili e maschili, picchettandoli di divieti nel nome della salvaguardia della vita dell'embrione e alla faccia della salvaguardia della salute della donna: c'è vita e vita evidentemente, e quando a gerarchizzarla è il Vaticano non si rischia alcun collasso ontologico. Si rischia in compenso il collasso giuridico, com'è chiaro dalle ultime sparate congiunte di alcuni ginecologi romani e di papa Ratzinger, volte a fare rumorosamente nebbia dove la 194 faceva sobriamente luce (si veda l'articolo di Carlo Flamigni che pubblichiamo oggi), pur di continuare a battere dove il dente duole: la parola decisiva della madre (nonché del padre) sulla vita in potenza del feto.
Potremmo continuare con le contraddizioni in seno ai teodem. Ci fermiamo. C'è in questa loro campagna di appropriazione violenta della parola sulla procreazione e delle norme di classificazione della vita qualcosa di osceno e di macabro, che più che l'ingaggio della risposta colpo su colpo domanda l'intervallo silenzioso della presa di distanza. Qui la contraddizione è dei media (si veda il Corsera di ieri), che ogni volta cascano nella trappola e aggiungono al danno la beffa, prendendosela con le donne che oggi non parlano mentre negli anni Settanta sì che si facevano sentire. Come se altra parola femminile non potesse essere conosciuta e riconosciuta, se non quella che ai tempi del dibattito sulla 194 si esprimeva in cortei, manifestazioni, rivendicazioni.
Anche allora non c'era solo quella: dietro c'era il lavoro dell'autocoscienza, che seppe fare dell'esperienza una fonte di sapere, del personale una questione politica, del rapporto sessuale un continente da esplorare, delle verità scientifiche un campo da interrogare, di un primato naturale - quello sulla maternità e la messa al mondo della vita - un oggetto di ragione, di una relazione primaria - quella fra madre e feto - una base di diritto. Fra critica della ragione moderna e critica dei collassi postmoderni, quella parola femminile è stata seminale, ha fatto cultura, governa la vita con maggiore saggezza della governance biopolitica che semina dappertutto guerra e distruzione. E' contro la sua pacifica forza, non contro la sua debolezza, contro il suo dire, non contro il suo tacere, che il coro teodem si accanisce e si dibatte, a costo di stonature che sfiorano il ridicolo dietro i paludamenti sacri e profani che ostentano.
La campagna elettorale che si apre, anzi s'è già aperta o non s'è mai chiusa, non farà che aumentare i decibel: è quando la politica ha poco o niente da dire che la parola passa ai proclami etici improvvisati, ai catechismi morali comandati, alle verità scientifiche usate come clave. Sta alla politica decidere se è in queste parole, o nella parola femminile, che vuole trovare una risorsa di senso.


Roberto Saviano e "L'anima perduta nella monnezza di Napoli"

Un'analisi disperata della situazione campana. Da "La Repubblica" del 4 febbraio 2008
 
- 04/02/2008
 
Analisi disperata della situazione campana: eppure Napoli siamo noi e a noi tutti spetta liberarci dalla monnezza fisica e metaforica che ci ammorba il corpo e l’anima. Da la Repubblica, 4 febbraio 2008 ("L'anima perduta nella monnezza di Napoli" articolo di Roberto Saviano, ripreso dal sito Eddyburg Data di pubblicazione: 04.02.2008 ).
 
Niente è cambiato. Si è tentato – tardi, tardissimo – ma non si è risolto nulla. L’esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un’ininterrotta distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade, o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare". Niente è cambiato se non l’attenzione. Dalla prima pagina alle cronache locali.
Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila. Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti, camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di nuovo. Tutti pronti a parlare, in un’orchestra che emette suoni talmente confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.
Certo risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce di banana, a lasciar invadere l’aria dall’odore putrescente degli scarti di pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.
 
Il rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non c’erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo. Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un’area di meno di 15 km enormi centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il più grande di tutt´Italia, poi il più grande d’Europa e da poco uno tra i più grandi al mondo: un’area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere. Ultimo arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto spunto dall’icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina artificiale, un’escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di 150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime dell’Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d’Italia. La regione è mortificata nei settori dell’agricoltura e dell’industria e incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi. E per quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale s’attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes diceva che quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c’è tutta questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile. Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di tutto, senza controllo. Chi gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi, portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare, intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c’è persino una carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.
Ma perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i clan. A loro non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le ditte pagate per raccoglierla e più l’uso dei macchinari in mano ai clan sarà abbondante.
 
E più le discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto nulla? Perché l’emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza si vive. Finita l’emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi, al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso. Certo. Ma in un territorio dove l’indice di mortalità per cancro svetta al 38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo in una terra che è stata definita la Cernobyl d’Italia? Il centrosinistra ha creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la questione camorra riguardava l’altra parte. Ma non era così. Le porte dei circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi anni.
E il crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l’affare e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo italiano forse non è mai stato così sostenuto dall’esperienza. E oggi occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno.
Non c’è altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l’intero paese. In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov, forse il più grande narratore dell’aberrazione del potere totalitario. Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno. A Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci consegni? L’anima?". "No, l’anima non ve la do" rispose. Prese una punizione durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente. Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un’anima, e non farcela togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino che protesi.