Iraq

Ritorno a Fallujah

Tre anni dopo il devastante attacco degli Stati Uniti il nostro corrispondente è entrato nella città irachena sotto assedio, trovandola senza acqua pulita, corrente elettrica e medicine.

8 febbraio 2008 - Patrick Cockburn
Fonte: Indipendent on-line - http://www.independent.co.uk - 28 gennaio 2008, e 
 Associazione PeaceLink. Tradotto da Annamaria Arlotto

E' più difficile entrare a Fallujah che in qualsiasi altra città del mondo. Per la strada proveniente da Bagdad ho contato 27 posti di blocco, tutti sorvegliati da soldati e poliziotti ben armati . "L'assedio è totale" dice, scuro in volto, il dott. Kamal all'ospedale di Fallujah, mentre stila la lista di ciò che gli occorrerebbe, che comprende di tutto, dalle medicine all'ossigeno e dall'elettricità all'acqua pulita.
L'ultima volta che tentai di entrare a Fallujah in macchina, diversi anni fa, rimasi coinvolto nell'imboscata ad un convoglio americano che trasportava carburante, e dovetti uscire dall'auto a carponi e sdraiarmi sul ciglio della strada insieme all'autista, mentre tra soldati americani e guerriglieri si era aperto il fuoco. La strada adesso è molto più sicura ma a nessuno è concesso di entrare a Fallujah fuorché ai residenti in grado di comprovare che vivono là mediante documenti d'identità dettagliati. La città è isolata dal novembre del 2004, quando i Marines americani vi irruppero con un attacco che l'ha lasciata per la maggior parte in rovina.
Le strade, con i muri butterati dai segni delle pallottole e con gli edifici ridotti ad un cumulo di lastre di cemento, appaiono ancora come se il combattimento fosse cessato da poche settimane.
Sono andato a vedere il vecchio ponte sull'Eufrate dalle cui travi d'acciaio i falluiani avevano impiccato i corpi bruciati di due guardie private americane addette alla sicurezza, uccise dai guerriglieri - l'incidente che fu la scintilla che provocò la prima battaglia di Fallujah. Il ponte, a corsia unica, c'è ancora ed è sovrastato dalle rovine di un edificio bombardato o colpito da granate, il cui tetto, in frantumi, si allunga sulla strada mentre una rete di ferro arrugginita tiene insieme lastroni di cemento.
Il capo della polizia di Fallujah, il colonnello Feisal Ismail Hassan al-Zubai, ha cercato di far vedere che la sua città sta facendo progressi.
Mentre guardavamo il ponte una piccola folla si è radunata . Un anziano col cappotto marrone ha strillato: "non abbiamo l'elettricità, non abbiamo l'acqua!"
Altri hanno confermato che a Fallujah la corrente elettrica c'è per un'ora al giorno. Il colonnello Feisal ha detto che non poteva far molto riguardo ad acqua ed elettricità, ma ha promesso ad un uomo di togliere lo sbarramento fatto col filo metallico davanti al suo ristorante.
Fallujah se la passa forse meglio di prima, ma di strada da fare ne rimane tanta. I medici dell'ospedale confermano che sono diminuiti gli arrivi di vittime di sparatorie o esplosioni di bombe da quando il Movimento Awakening ha espluso al-Qa'ida dalla città negli ultimi sei mesi, ma la gente cammina ancora con cautela per le strade, come se si aspettasse che da un momento all'altro una sparatoria abbia inizio.
Il colonnello Feisal, un ex ufficiale delle Forze Speciali di Saddam Hussein, ammette gioiosamente che prima di essere a capo della polizia "combatteva gli americani". Suo fratello Abu Marouf, un tempo al comando della guerriglia, controlla 13.000 combattenti del Movimento anti al-Qa'ida Awakening, dentro e attorno a Fallujah. Il colonnello ha precisato che le strade di Fallujah non sono proprio sicure, ma il suo convoglio marcia veloce ed è condotto da un poliziotto con il volto coperto da un passamontagna bianca, che da sopra il veicolo e con in mano il fucile intima ai veicoli in arrivo di togliersi di mezzo gesticolando in modo frenetico.
Il commissariato di polizia è un locale ampio e protetto da barriere fatte con cemento e terra. Appena raggiunto il cortile interno abbiamo visto dei cartelli che dicevano che se la battaglia contro al-Qa'ida era finita non li erano però gli arresti. Da un'altra parte del commissariato è apparsa una fila di venti prigionieri, ognuno con gli occhi coperti da una benda bianca e aggrappato ai vestiti del prigioniero davanti. Quei prigionieri mi hanno ricordato le fotografie degli uomini che furono accecati dal gas durante la Prima Guerra Mondiale e che arrancavano dietro un uomo che invece ci vedeva e che era, in quel caso, un secondino della prigione.
Ci sono edifici nuovi sulla via principale. A mangiare andavo in un locale che fa kebab che si chiamava HajiHussein ed era uno dei migliori in Iraq. Ma col perdurare dell'occupazione ho cominciato ad attirare sguardi ostili, e il proprietario mi ha consigliato di mangiare al piano di sopra, in una stanza vuota, per sicurezza; poco dopo il locale è stato distrutto da una bomba americana. Adesso è stato ricostruito e dipinto con colori sgargianti, e sembra che gli affari vadano bene.
Un tempo Fallujah contava 600.000 abitanti: nessuno degli ufficiali in città sembra essere a conoscenza del numero attuale. Il colonnello Feisal è speranzoso riguardo agli investimenti e ci ha portato a vedere un nuovo edificio bianco chiamato Fallujah Business Development Centre, finanziato in parte da una divisione dello US State Department . Alcuni soldati americani alti stavano presidiando una conferenza sullo sviluppo economico. "Ha attratto un investitore americano finora" mi ha detto un consulente americano in divisa, con tono di speranza. "Io sono Sarah e mi occupo di interventi psicologici" mi ha detto un'altra funzionaria statunitense, che ci ha mostrato tutta fiera la nuova Radio Fallujah che aveva appena preso il via.
Dall'altra parte della città abbiamo attraversato il ponte di ferro costruito intorno al 1930 , che rappresenta adesso l'unico collegamento con l'altra sponda dell'Eufrate. Esiste un ponte moderno mezzo miglio in giù sul fiume ma l'esercito americano se ne è impossessato e lo usa, a sentire la gente del posto, come parcheggio per i veicoli. Dall'altra parte del ponte, passate le file di alti giunchi dove coloro che scappavano dalla città durante gli assedi del 2004 provavano a nascondersi, c'è un edificio sventrato dalle bombe dal lato della strada. Dall'altro c'è l'ospedale i cui dirigenti sono stati accusati dai comandanti americani di gonfiare sistematicamente il numero delle vittime del bombardamento americano.
Quando ho domandato cosa manca all'ospedale il dott. Kamal mi ha risposto: "medicine, combustibile, elettricità, generatori di corrente, un sistema per il trattamento delle acque, ossigeno e attrezzatura medica." Difficile non pensare che l'aiuto americano sarebbe stato meglio diretto verso l'ospedale anziché il centro per lo sviluppo economico...
Il colonnello Feisal ha detto che le cose stavano andando meglio, ma intanto era accerchiato da donne vestite di nero che gridavano che i loro bambini non erano stati curati.
"Ogni giorno 20 bambini muoiono qua" , ha detto una di loro, "Sette proprio in questa stanza."
I medici hanno detto che si prendono cura dei loro pazienti meglio che possono. "Gli americani non ci procurano nulla" ha detto una madre che cullava un bambino, "portano solo distruzione".

Note:
Tradotto da Annamaria Arlotta per www.peacelink.it


Us Army, più suicidi che caduti in Iraq

Seimila reduci si sono tolti la vita soltanto nel 2005
SARA BERUTTO - LA STAMPA

Per molti soldati americani che hanno combattuto in Iraq e in Afghanistan la guerra più sanguinosa comincia con il ritorno a casa: il numero dei suicidi tra i veterani supera quello dei militari uccisi dall’inizio del conflitto. I dati, raccolti in un’inchiesta durata cinque mesi dal network Cbs, sono impietosi: soltanto nel 2005 sono stati 6256 gli ex soldati che hanno deciso di togliersi la vita una volta tornati dalle loro famiglie. Una media di 17 suicidi al giorno, più del doppio del resto della popolazione statunitense.

Il tasso di suicidi negli Stati Uniti è di 8,9 casi su 100 mila persone, ma tra i veterani la cifra sale a 18,7. I numeri si fanno ancora più preoccupanti se messi a confronto con quelli dei soldati caduti in combattimento in Iraq dal 2003. Per il sito internet iCasualties, fondato dall’ingegnere elettronico Michael White per monitorare le vittime del conflitto in Iraq, sono 3863 i soldati americani uccisi in servizio dal 2003 a oggi, una media di 2,4 al giorno.

I militari più a rischio sono i reduci giovani, che hanno tra i 20 e i 24 anni: 22,9 su 100 mila decidono di togliersi la vita, un numero quattro volte superiore ai coetanei che non hanno prestato servizio militare in zone di guerra. Come il riservista della Marina Jeff Lucey, 23 anni, che ha deciso di farla finita usando la pompa per innaffiare il giardino per impiccarsi nella cantina dei suoi genitori. O come Tim Bowman, riservista, spedito in missione in una delle zone più pericolose di tutta Baghdad, conosciuta come «Airport Road». Otto mesi dopo il suo ritorno a casa, il Giorno del Ringraziamento, si è sparato. Anche Tim aveva 23 anni. «Quando è tornato i suoi occhi erano semplicemente morti. La luce non c’era più», ha detto alla tv Cbs la madre del ragazzo, Kim Bowman. Derek Enderson, invece, era già tornato dall’Iraq due volte, ma la terza è stata fatale: si è gettato da un ponte a 27 anni.

«Siamo di fronte a una crisi gravissima - ha dichiarato Kevin Lucey, padre di Jeff Lucey - e troppe persone hanno deciso di voltare la testa e guardare da un’altra parte». Lucey si riferisce alle autorità militari e federali che, secondo i parenti delle vittime, non stanno facendo abbastanza per arginare il problema. Tanto che, sebbene molti studi siano stati condotti in merito a questa tendenza, non esiste un rapporto ufficiale che stabilisca il numero totale dei casi di suicidio tra i veterani. Anche per questo motivo la tv Cbs ha dovuto lavorare oltre cinque mesi per raccogliere i dati e le testimonianze. Daniel Akaka, presidente della commissione Veterani del Senato, ha definito la situazione descritta nell’inchiesta «inaccettabile»: «Sono particolarmente preoccupato per il fatto che così tanti giovani soldati decidano di togliersi la vita. Per troppi reduci tornare a casa non significa finire di combattere. Non c’è alcun dubbio che qualche provvedimento vada preso».

Negli Stati Uniti gli ex soldati sono oltre 25 milioni, 1,6 dei quali ha servito in Iraq o in Afghanistan. Secondo il «National Center for Post Traumatic Stress Disorder» lo stress e i traumi a cui i soldati sono sottoposti al fronte non fanno che aumentare il rischio emarginazione sociale e suicidio, così come l’abuso di droghe o farmaci e le difficoltà relazionali ed economiche che spesso affliggono chi ritorna in patria.

L’alto tasso di suicidi non è l’unico problema a preoccupare il Dipartimento dei Veterani. Uno studio pubblicato la scorsa settimana ha rivelato che un senzatetto su quattro in America ha prestato servizio nell’esercito, nonostante gli ex militari rappresentino solo l’11 per cento della popolazione totale. E questi non sono gli unici scandali che hanno coinvolto i veterani: le rivelazioni dei giornali sul «Walter Reed Army Medical Centre», ospedale militare di Washington dalle strutture fatiscenti, ha danneggiato l’immagine dell’esercito anche perché alcuni chirurghi dell’esercito, tra cui il generale Kevin Kiley, sono stati congedati per i cattivi servizi prestati ai reduci di Iraq e Afghanistan. Nel complesso quanto la Cbs descrive assomiglia allo scenario del post-Vietnam, anche se allora il numero dei reduci era assai maggiore.


APPELLO: NO ALL’ACQUISTO DEGLI AEREI DA GUERRA F35

chi condivide il contenuto e la richiesta al governo di non acquistare gli f 35 di mandare la propria adesione a [email protected]  indicando cognome, nome, qualifica (professionale, istituzionale, o di impego nl sociale.
 
 
Dopo la firma del “memorandum d’intesa sullo sviluppo del velivolo Joint Strike Fighter F 35” fra Italia e Stati Uniti d’America, il prossimo atto ufficiale in calendario è la decisione che dovrebbe prendere il Governo italiano di acquistarne 131 dalla Lockheed Martin Aeronautics.
Una decisione che, se assunta, comporterebbe per l’Italia una spesa che varia fra i 25 ed i 30 mila miliardi delle vecchie lire a seconda che il pagamento debba essere effettuato in euro o in dollari.
Un onere finanziario per il nostro Paese di inaudita ed ingiustificabile enormità per una operazione assurda ed inaccettabile.
 
Gli F 35 non sono “aerei da difesa” ma supercacciabombardieri progettati ed attrezzati per portare “fulmineamente” morte e distruzione a persone e cose sfuggendo alle intercettazioni dei radar nemici per cui o il Governo li acquista pensando che l’Italia debba risolvere le controversie internazionali con le guerre ed ottiene che il Parlamento cancelli l’articolo 11 della Carta Costituzionale o compera 131 cacciabombardieri che non potranno essere usati né dall’aeronautica né dalla marina italiane.
 
Per il loro acquisto  si spenderebbero decine di miliardi di lire dei cittadini italiani per favorire:
-          enormi profitti agli azionisti della Lockheed Martin Aeronautics
-          la ricerca scientifica e tecnologica di un’azienda americana
-          posti di lavoro a Fort Whort in Texas
 
Non solo. Chi sa di acquisti di aerei afferma, documentando, che tra il prezzo iniziale di progetto e quello finale di vendita vi è una lievitazione impressionante. Tanto è vero che il costo di un F 35 che in sede di progetto era di 31,5 milioni di euro è già triplicato.
 
 Oltre ai 25/30 mila miliardi, quante altre decine di migliaia di miliardi dovrà sborsare lo Stato italiano, cioè noi?
 
Per questa ragioni e nella convinzione che la pace sia un valore assoluto non barattabile e che senza pace non vi possa essere alcun tipo di progresso
Chiediamo al Governo italiano di non acquistare i supercacciabombardieri F 35 ed al Parlamento di non consentire l’enorme spesa necessaria
 
Quelle decine di migliaia di miliardi non utilizzati per acquistare strumenti di morte e di distruzione - e non di difesa – possono costituire o un’ enorme somma risparmiata che non va a gravare sul bilancio dello Stato o essere investite per la ricerca, l’università, la salute, il lavoro dei giovani, le pensioni per gli anziani, gli aiuti ai diseredati del mondo, la riconversione dell’industria bellica.
 
Seguono firme…
 


Mamma pace non abita più qui

il manifesto del 30 Maggio 2007

  

Il movimento per la pace americano perde la sua icona più rappresentativa «Questa è la mia lettera di dimissioni da volto del movimento anti-guerra americano». Tradita, insultata, malata, divorziata, la «peace mom» Cindy Sheehan scrive al «suo» sito: basta, raccolgo i cocci e torno a casa

 

 

Cindy Sheehan

 Dopo che Casey è stato ucciso ho dovuto sopportare un sacco di calunnie e di odio, soprattutto dal momento in cui sono diventata la cosiddetta faccia del movimento americano contro la guerra. Ma soprattutto da quando ho rinunciato anche ai pochi legami che mi erano rimasti con il partito democratico, altro fango mi è stato gettato addosso da blog «liberal» come Democratic Underground. Essere chiamata «puttanella egocentrica» e sentirmi dire «che liberazione» sono stati tra gli insulti più teneri.

Oggi, il Memory day per i veterani, sono arrivata ad alcune strazianti conclusioni. Non sono il frutto di riflessioni del momento ma di una meditazione che va avanti da almeno un anno. Le conclusioni alle quali sono lentamente e con estrema riluttanza giunta sono davvero strazianti per me.

La prima conclusione è che sono stata la beniamina della sinistra finché mi sono limitata a protestare contro Bush e il partito repubblicano. Certo, sono stata diffamata ed etichettata dalla destra che mi ha definito uno strumento del partito democratico per emarginare me e il mio messaggio. Come potrebbe una donna avere un pensiero originale o lavorare al di fuori del sistema bipartito?

Ma quando ho cominciato a trattare il partito democratico con lo stesso metro di giudizio usato per quello repubblicano, il sostegno alla mia causa ha cominciato ad erodersi e la «sinistra» ha cominciato a gettarmi addosso gli stessi insulti della destra. Suppongo che nessuno mi abbia ascoltato quando ho detto che la questione della pace e di coloro che muoiono senza ragione non è questione di «destra o sinistra» ma di «giusto e sbagliato».

Mi ritengono una radical perché credo che le politiche partisan dovrebbero essere accantonate quando centinaia di migliaia di persone muoiono a causa di una guerra fondata su bugie, sostenuta allo stesso modo da democratici e repubblicani. Mi meraviglia che persone così acute nelle argomentazioni e precise come un raggio laser quando esaminano le menzogne, i travisamenti e gli espedienti politici di un certo partito, rifiutino di riconoscerle nel loro proprio partito. La cieca lealtà di partito è pericolosa da qualunque parte venga. I popoli del mondo ci considerano, noi americani, come delle caricature perché consentiamo ai nostri leader politici tanta libertà omicida. Se non troviamo alternative a questo corrotto sistema bipartitico la nostra repubblica rappresentativa morirà e sarà sostituita da quello verso cui stiamo rapidamente discendendo senza incontrare resistenza: il deserto fascista delle corporations. Io vengo demonizzata perché quando guardo una persona non ne vedo il partito o la nazionalità ma il cuore. Se qualcuno sembra, veste, agisce, parla e vota come un repubblicano, perché dovrebbe meritare sostegno solo perché si definisce democratico?

Sono anche arrivata alla conclusione che se faccio quel che faccio perché sono «una puttanella egiocentrica» allora c'è davvero bisogno che mi impegni di più. Ho investito tutto quel che avevo nel tentativo di portare pace e giustizia a un paese che non vuole né l'una né l'altra. Se una persona vuole entrambe, normalmente non fa niente di più che passeggiare in una marcia di protesta o sedere al computer criticando gli altri. Io ho speso ogni centesimo che avevo, quel denaro che un paese «grato» mi ha dato quando hanno ucciso mio figlio, e ogni penny guadagnato da allora con conferenze o vendita di libri. Ho sacrificato un matrimonio durato 29 anni e viaggiato a lungo dalle sorelle e dal fratello di Casey. La mia salute ne ha risentito e sono in arretrato con i conti dell'ospedale dall'estate scorsa (stavo quasi per morire), perché ho usato tutte le mie energie per cercare di fermare il massacro di innocenti compiuto da questo paese. Sono stata chiamata con ogni nome spregevole che una mente miserabile può pensare e sono stata più volte minacciata di morte.

La conclusione più devastante raggiunta questa mattina, tuttavia, è che Casey è davvero morto per nulla. Il suo prezioso sangue versato in un paese lontano dalla sua famiglia che lo amava, ucciso dal suo stesso paese che è legato e guidato da una macchina da guerra che controlla anche quel che pensiamo. Da quando è morto ho tentato di tutto per dare un senso al suo sacrificio. Casey è morto per un paese che si preoccupa più di chi sarà il prossimo american idol che di quante persone saranno uccise nei prossimi mesi mentre democratici e repubblicani giocano alla politica con le vite umane. E' davvero doloroso rendermi conto di aver creduto a questo sistema per tanti anni, e Casey ha pagato il prezzo di quella obbedienza. Ho ingannato il mio ragazzo, ed è ciò che mi fa più male.

Ho anche cercato di lavorare all'interno di un movimento pacifista che spesso pone gli ego al di sopra della pace e degli esseri umani. Questo gruppo non lavorerà con quell'altro; lui non parteciperà se ci sarà anche lei; e perché Cindy Sheehan ottiene tutta quell'attenzione? Difficile lavorare per la pace quando il movimento che a questa si richiama è così diviso.

I nostri coraggiosi giovani uomini e donne in Iraq sono stati abbandonati lì indefinitamente da leader codardi che li muovono come pedine su una scacchiera di distruzione, e il popolo iracheno è destinato alla morte e a un destino peggiore della morte da gente a cui stanno più a cuore le elezioni che le persone. Tuttavia in cinque, dieci, quindici anni le nostre truppe torneranno a casa zoppicando dopo un'altra abietta sconfitta e dieci, venti anni dopo i figli dei nostri figli capiranno che i loro cari sono morti per nulla, perché anche i loro nonni avevano creduto in questo sistema corrotto. George Bush non sarà mai sottoposto a impeachment perché se i democratici scavano troppo, potrebbero dissotterrare anche i propri scheletri. E il sistema si perpetuerà all'infinito.

Io riprenderò tutto ciò ho lasciato e tornerò a casa. Tornerò a casa per fare da madre ai figli sopravvissuti e cercare di riguadagnare qualcosa di ciò che ho perduto. Cercherò di mantenere e alimentare alcuni rapporti positivi trovati nel corso del viaggio al quale sono stata costretta dalla morte di Casey, e tenterò di ripararne alcuni altri tra quelli che sono andati in pezzi da quando ho iniziato questa solitaria crociata per cercare di cambiare un paradigma che ora, temo, è scolpito in inamovibile, inflessibile e menzognero marmo.

Camp Casey è servito allo scopo. Ora è in vendita. C'è nessuno che vuole cinque splendidi acri a Crawford, Texas? Esaminerò ogni ragionevole offerta. Sento dire che anche George Bush traslocherà presto... il che incrementa il valore della proprietà.

Questa è la mia lettera di dimissioni da «faccia» del movimento americano contro la guerra. Questo non è il giorno della mia sconfitta, perché non rinuncerò mai a tentare di aiutare i popoli del mondo danneggiati dall'impero dei buoni, vecchi Stati uniti d'America. Ma ho finito di lavorare dentro, o fuori, questo sistema. Questo sistema resiste con forza a ogni aiuto e divora chi cerca di aiutarlo. Io ne esco prima che consumi totalmente me o ogni altra persona che amo, e quel che resta delle mie risorse.
Good-bye America. Non sei il paese che io amo, e alla fine ho capito che per quanto mi sacrifichi non posso fare di te quel paese, a meno che non lo voglia anche tu.

Ora, tocca a te.

 

 

 

 

 

Argomento: 

IRAQ: VIA I SOLDATI, ARRIVANO I CONTRACTORS, MILIZIE PRIVATE

Abbiamo ricevuto questa interessante lettera, che con piacere pubblichiamo.

 

Salve Senatrice,

Ciao Carlotta,

sono Federico di GIV Forlì.
Volevo segnalarvi questo articolo dell'indipendente su come stiamo portando avanti la "protezione dei civili" in Iraq.
L'Iraq è terra dimenticata dagli italiani dopo il ritiro dei nostri militari, messa in secondo piano dal dibattito sull'Afghanistan. Tuttavia cooperanti e tecnici impiegati dagli enti di idrocarburi, Eni in testa, sono ancora là e, grazie anche alle nostre anticipazioni, è noto che il governo Prodi, nel decreto che finanzia le missioni italiane, ha inserito uno stanziamento di 3 milioni e mezzo di euro per i "contractors", altrimenti detti mercenari o paramilitari, che devono proteggere i civili.

Ma quello che non è ancora noto è la società a cui sono destinati questi soldi. Si tratta della Aegis Defence Services, con sede a Londra, che ha già stipulato con il Pentagono, per i suoi servizi in Iraq, un contratto da 293 milioni di dollari, che ha sollevato le proteste di buona parte del Congresso Usa. Gli uomini dell'Ads, fondata e diretta da Tim Spicer, sono accusati di violazioni dei diritti umani e di aver sparato contro civili iracheni inermi.

Il nome di Tim Spicer in passato è stato accostato alla repressione di una ribellione per conto del governo di Papua Nuova Guinea nel '97 e, nel ' 99, all'esportazione di 35 tonnellate di armi bulgare in Sierra Leone, nonostante l'embargo imposto dall'Onu. Inoltre, Spicer nel 1992, quando era ufficiale britannico in Irlanda del nord, fu coinvolto nella uccisione di un ragazzo cattolico e due soldati posti sotto il suo comando per questo delitto furono condannati.

 

Il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema e quello della Difesa, Arturo Parisi non smentiscono la notizia né spiegano il motivo della singolare scelta del governo che non ha stabilito nessuna regola per il controllo delle attività dell'Ads contro la quale negli Stati Uniti si battono Hillary Clinton, Barak Obama e Ted Kennedy. Un silenzio condiviso dalla sinistra radicale che, con poche eccezioni, ha comunque ritenuto che le pallottole sparate da mercenari sono diverse da quelle di chi indossa una divisa. Una bella fiera dell'ipocrisia e un brutto spettacolo politico.

Ho fatto un paio di accertamenti perchè il nome Tim Spicer (insieme a Simon Mann ed al più noto figlio della Thatcher) è legato a tantissimi "operazioni sporche" in africa. Vi segnalo questo articolo, http://www.disarmo.org/rete/articles/art_21447.html e questi video sull'inchiesta della RAI:
http://www.rainews24.it/video.asp?videoID=2071

 

Federico-Balestra-Giovani IDV Forlì-Cesena

 

Caro Federico,
grazie per la segnalazione. Ci siamo occupati di AEGIS ed ENI in APRILE, con un articolo della Voce della Campania davvero approfondito.
Prova a cliccare
http://www.francarame.it/?q=node/329

Vi è poi un’interessante interrogazione a riguardo, presentata dal Sen. Bulgarelli:

 

Legislatura 15 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-01810
Atto n. 4-01810

Pubblicato il 2 maggio 2007
Seduta n. 145

Titolo: Su un contratto del Governo con la società di sicurezza privata Aegis in Iraq

BULGARELLI - Ai Ministri della difesa e degli affari esteri. -
Premesso che:
nella relazione tecnico-finanziaria che accompagna il decreto di rifinanziamento delle missioni militari all'estero approvato dal Parlamento nel marzo 2007è previsto lo stanziamento di 3.498.000 euro da destinare a una private military company (società di sicurezza militare privata) incaricata di operare in Iraq, nella regione di Nassiriya, a tutela dell'incolumità del personale italiano dell'Unità di sostegno alla ricostruzione (Usr) di stanza in quel territorio;
secondo alcuni organi di informazione, tra i quali il quotidiano nazionale "l'unità", la scelta del Governo italiano sarebbe ricaduta sulla società Aegis Defence Services, con sede a Londra, tra le più grandi aziende del settore e in grado di vantare contratti per centinaia di milioni di dollari per il solo anno 2006; tale società, che dispone di sei uffici internazionali con sede in Afghanistan, Bahrain, Iraq, Kenya, Nepal e Stati Uniti e di 75 squadre di “agenti per la sicurezza”, ha stipulato, tra l'altro, un contratto con il Ministero della difesa degli Stati Uniti, dell'importo di 293 milioni di dollari, per operare in Iraq, con un progetto denominato "Matrix", in supporto delle truppe americane;
fondatore e capo della Aegis è Tim Spicer, mercenario scozzese veterano delle Falklands, resosi protagonista negli anni passati di varie atrocità in numerosi Paesi del mondo, tra le quali, nel 1992, l'uccisione di un ragazzo disarmato in Irlanda del Nord, la feroce repressione, nel 1997, dei movimenti indigeni delle isole di Bouganville, in Papua Nuova Guinea, l’esportazione, nel 1998, di 35 tonnellate di armi bulgare in Sierra Leone, nonostante l’embargo posto dalle Nazioni Unite; vari uomini politici americani, tra i quali l'ex presidente Bill Clinton, i senatori Barak Obama e Ted Kennedy, hanno denunciato negli anni scorsi le attività illegali delle società di sicurezza capitanate da Spicer e, nell’agosto del 2004, Marty Meehan, membro del Congresso statunitense, ha inviato una lettera all’allora capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, nella quale ripercorreva puntualmente la "carriera" di Spicer e protestava per il suo impiego da parte del Governo degli Stati Uniti;
la Aegis, tra l'altro, si sarebbe resa protagonista di efferati crimini anche in Iraq: in un video apparso nel novembre 2005 su Arcoiris Tv i contractor della Aegis sono immortalati mentre attuano una vera e propria “battuta di caccia” nelle strade di Baghdad, l'emittente televisiva Channel Four ha diffuso recentemente un video nel quale si vedono i mercenari dell'Aegis sparare raffiche di mitra contro auto civili (con numerosi feriti) e, infine, l'emittente televisiva "Rainews 24" ha mandato in onda venerdì 20 aprile 2007 un servizio in cui, oltre a riprendere le immagini di Channel Four, si ricostruisce la figura di Spicer, servendosi anche delle testimonianze di un ex membro di Aegis,
si chiede di sapere:
se risponda al vero che il Governo ha stipulato un contratto con la società Aegis per proteggere gli operatori italiani a Nassiriya;
quali siano i criteri che hanno indotto il Governo a preferire la Aegis, nonostante i numerosi crimini contro i diritti umani di cui tale società si è resa protagonista negli anni passati;
se non si ritenga opportuno, alla luce anche delle violenze compiute da Aegis nei confronti della popolazione civile irachena, riconsiderare una scelta che potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza degli operatori italiani a Nassiriya.

 

Argomento: 

LE DUE GUERRE

l'autore della foto è Tano D'Amico.

 

Di Antonietta M. Gatti

 Laboratorio dei Biomateriali,

 Dipartimento Integrato di Neuroscienze, Testa e Collo e Riabilitazione

 Università di Modena e Reggio Emilia

  Se negli anni Sessanta la responsabilità di qualsiasi comportamento umano aberrante era allegramente scaricato sulla società, oggi il nostro approccio al problema è decisamente più scientifico: la colpa sta nel DNA. Nel 2003 un professore di Neuroscienze, tale Evan Deneris della Case Western Reserve University, scovò il gene dell’aggressività e dell’ansia e, dunque, a ben vedere, della guerra. Se è così, la guerra è inevitabile perché la portiamo scritta dentro di noi e, se la portiamo dentro di noi, cercare di eliminarla è fatica sprecata. Ma, al di là della genetica, giustificazioni per fare a botte ce n’è a iosa, da ideali politici a istanze religiose, da classifiche stilate in base all’etnia a pretese territoriali comunque giustificate, e chi più ne ha, più ne metta. In aggiunta, senza che ce lo vogliamo confessare perché questo svilirebbe la nobiltà degl’intenti bellicosi, sotto sotto ci potrebbe stare anche un disegno più grande di cui noi non siamo che protagonisti inconsci: il contenimento dei numeri. Quando animali della stessa specie e, dunque, con le stesse esigenze, si trovano a condividere aree troppo piccole, l’unica possibilità che hanno è di liberarsi del concorrente. La Natura è crudele? Fate voi. Comunque, la Natura sfugge ad ogni giudizio morale: la si deve accettare perché non c’è alternativa.

Però, se la guerra ce l’abbiamo scritta in ogni cellula e, dunque, è una caratteristica della nostra specie, forse sarebbe meglio non esagerare e dare un’occhiata ai rischi che un’attività del genere comporta al di là del puro, semplice e scontato ammazzare il nostro simile occasionalmente nemico. A mero titolo di riflessione, prendiamo

la prima Guerra del Golfo, quella del 1991. Finito il loro periodo di servizio, alcuni militari tornano dall’Iraq o dal Kuwait portandosi a casa strani sintomi, anzi, strane collezioni di sintomi non descritti nei libri o, comunque, apparentemente non in relazione tra loro. La cosa dà fastidio ai comandi militari, non per i malati in quanto tali: in fondo, si tratta solo di soldati e, se un soldato muore, il tutto rientra nell’ordine delle cose; ma per il possibile impatto che un fatto del genere potrebbe esercitare sulla popolazione che, con le proprie tasse, paga i costi della guerra e il cui consenso o, comunque, non dissenso, è indispensabile. Così, come è prassi consolidata da sempre, si decide di negare fatti pure evidentissimi, e questo anche con la complicità di media e di accademici accomodanti.

Passa un quindicina d’anni abbondante, sul Golfo Persico si combatte un’altra guerra, se ne combatte una anche in quella che fu la Jugoslavia e i malati di queste strambe malattie aumentano. E mica si tratta solo di soldati: c’è anche un sacco di civili e, cosa seccante e imbarazzante, ci sono anche tanti bambini, alcuni dei quali non ancora nati, ma che quando riescono a nascere hanno malformazioni più o meno orrende, alcune delle quali incompatibili con

la vita. Non ci sarà, per caso, un lato “oscuro” della guerra? E, visto che ad ammalarsi non sono solo i “cattivi”, ma anche i “buoni”, non ci sarà un lato della guerra che non guarda in faccia a nessuno?

Io, per mestiere, di militari ammalati ne incontro parecchi e, con l’aiuto di un microscopio elettronico un po’ particolare, vado a guardare che cosa c’è nei loro tessuti patologici. Uno di questi militari è Herbert Reed, americano, la cui storia si può leggere all’indirizzo (http://thirdestatesundayreview.blogspot.com/2006/08/herbert-reed-blood-in-his-urine-and.html)

Insieme con lui ho conosciuto due suoi commilitoni, anche loro ammalati, e le storie si accavallano e si ripetono con martellante ripetitività per loro, americani, per i francesi, per gl’inglesi e per gl’italiani che ho incontrato di persona o le cui peripezie mi sono state raccontate dai genitori o dalle mogli perché loro non c’erano più. Bene, prendiamo allora Herbie Reed. Già in Iraq sta male e si fa visitare: non è niente. Torna a casa e sta peggio, con tutta una serie di sintomi che vanno dalla stanchezza cronica a difficoltà ad urinare, dall’insonnia a dolori lancinanti in tutto il corpo a gravissime difficoltà respiratorie. Lo mandano in un ospedale militare da dove lo dimettono senza una diagnosi ma con una documentazione che nega che le malattie, vere o presunte che siano, abbiano a che fare con guerra. Eppure, i sintomi ci sono: io stessa l’ho visto prendere antidolorifici e viaggiare trascinando perennemente dietro di sé una valigia montata su ruote contenente un respiratore senza il quale non potrebbe vivere. E se c’è un effetto, ci sarà pure una causa ma, evidentemente, questo concetto così apparentemente banale è stato pensionato come pure, almeno stando alle apparenze, pare sia stato pensionato il cervello pensante. Sia come sia, Herbert viene trasferito ad altre attività con la speranza che, non potendo di fatto lavorare, si dimetta e si tolga dai piedi, magari andando a morire altrove, non più in carico all’Esercito e, dunque, fuori da ogni statistica.

Guardiamo le cose freddamente: dal loro punto di vista, i militari hanno perfettamente ragione. L’unico rischio che la guerra deve comportare è essere ferito o magari anche morire per una bomba, una pallottola (è consentita anche quella da fuoco amico), durante il servizio, e se la cosa è particolarmente vistosa per qualche motivo, allora c’è un’ottima occasione per organizzare dei bei funerali con le bare ricoperte dalla bandiera che poi viene ripiegata in modo preciso, forse anche un po’maniacale, e consegnata ai famigliari. Ma militari che tornano senza una ferita apparente e che poi muoiono in un letto d’ospedale, dopo un’imbarazzante, magari lunghissima, agonia, condita di diagnosi incerte, spesso emesse dopo lunghi indugi, e di cure inefficaci, non sono contemplati: questo non è morire da soldato. Morire in patria fra monitor, pillole, flebo e padelle di una malattia neanche ben chiara non fa parte del copione, e poi, se la voce si diffonde, tra pacifisti e richieste di risarcimenti, c’è da stare freschi. Bisogna negare, e questo a dispetto di ogni evidenza.

E’ sempre stato così? Non saprei, ma vediamo che cosa sono le guerre moderne. Il protocollo inizia bombardando scientificamente, chirurgicamente, se non viene troppo da ridere con questo avverbio, con gli ultimi ritrovati della tecnologia. Per prima cosa occorre distruggere tutto ciò che di “nevralgico” era stato costruito ed è solo dopo questa prima azione di distruzione che i soldati, in genere i fanti, vanno fisicamente su quella terra distrutta, a prenderne possesso. Dappertutto ci sono solo “brandelli di muro”, come avrebbe detto Ungaretti, ma attenzione: tutto il muro che non si vede più c’è ancora, eccome. Le bombe lo hanno sminuzzato a polveri sottilissime, del tutto invisibili all’occhio ma ben evidenti se si hanno gli strumenti adatti e, ahimé, ancor meglio rilevate dai tessuti umani e dalle cellule che reagiscono male a simili indebite presenze. E queste polveri, i fantasmi di quelle che furono delle costruzioni, aleggiano nell’aria per tempi impossibili da pronosticare ma, comunque, lunghissimi. Un inquinamento, insomma, indotto in un  attimo e destinato a durare forse per sempre. Per sempre perché la maggior parte di queste polveri non è degradabile né dalla Natura né da qualsiasi tecnologia di cui oggi possiamo disporre. E’ da lì che comincia l’altra guerra, quella combattuta a ben altri livelli, e questa ha regole ferree, con cui non si può discutere, per cui non ci sono azioni diplomatiche che tengano. Con le nostre bombe supertecnologiche abbiamo alterato l’equilibrio naturale inquinando aria, acqua, terreno, vegetali, animali e uomini. Va da sé che gli uomini sono uomini qualsiasi abito vestano e, perciò, non ha importanza se si tratta di militari o di civili o di quei volontari che vanno a prestare il loro soccorso. Ma se i militari qualche mezzo di protezione ce l’hanno: maschere antigas e contatori Geiger, per esempio, e i civili sono i nemici e, dunque, devono essere uccisi per la logica stessa della guerra, i volontari sono, in un certo senso, trasparenti. Non appartengono ad una nazionalità precisa, non sono schierati e, dunque, non sono catalogabili né come amici né come nemici, e, a ben guardare, a volte sono pure d’intralcio, se non altro perché vedono certe cose e non tengono la bocca chiusa. Questi vanno lì, mangiano ciò che mangia la gente, bevono la stessa acqua, respirano la stessa aria e quasi mai sono informati dei reali pericoli che corrono. Io ne ho incontrati: ti guardano stupefatti della loro malattia, come se il loro slancio di generosità dovesse obbligatoriamente renderli immuni da tutto. Invece non è così:

la Natura non ha regole morali o, almeno, non quelle che ci aspetteremmo o che vorremmo. Se noi ne alteriamo l’equilibrio, la Natura ne riprende subito un altro senza curarsi del fatto che questo nuovo equilibrio sia o no compatibile con le esigenze di una specie piuttosto che di un’altra. Ovviamente, l’uomo non gode di alcun privilegio e, da signore del creato come con presuntuosa ingenuità ama autodefinirsi, può tranquillamente trasformarsi nella più debole delle creature.

Nessuno strumento è buono o cattivo in sé, ma tutto dipende dall’uso che se ne fa e il cervello non è diverso da qualsiasi altro strumento. Chi è saggio lo usa per il meglio che, poi, di solito coincide con il bene di tutti. Se i politici, i militari e, perché no?, anche la gente comune, volessero soffermarsi un attimo su questa ovvietà, forse sarebbe la specie umana a ricavarne vantaggi, non ultimo, uno economico. Di fatto, tentare di ripulire le aree inquinate dalla guerra comporta spese elevatissime a fronte di risultati che non si possono altro che definire modesti quando non del tutto nulli. L’ho detto: le polveri inorganiche generate dai bombardamenti moderni sono in gran parte eterne e così piccole e sfuggenti da eludere ogni possibilità di cattura. Per di più, oggi sappiamo perfettamente che queste polveri causano un’infinità di malattie, moltissime delle quali inguaribili per la medicina odierna. E allora, che cosa si fa? Negli anni Cinquanta, in una cittadina americana, furono sotterrate scorie radioattive provenienti da un ospedale. Poi, su questa zona, fu costruito un bel parco in cui andavano a giocare i bambini. Malauguratamente, parecchio tempo dopo, insorsero nei frequentatori abituali di quel parco patologie tali da far capire che quella zona era contaminata e lo sarebbe stata ancora per tempi lunghissimi, anzi, in termini di generazioni umane, tempi infiniti. In maniera non dissimile, quando un poligono militare raggiunge un livello d’inquinamento troppo elevato, si regala il terreno alla comunità, senza, però, stare troppo a fare i pignoli sui rischi dell’operazione. Insomma, una patata bollente passata furbescamente ad altre mani tutte contente di tanta generosità.

Ormai è un dato di fatto inoppugnabile: negli ultimi, pochissimi anni abbiamo inquinato il nostro pianeta più di quanto abbiamo fatto nei due milioni di anni precedenti, così valicando ogni limite di sostenibilità e, in certe zone, le guerre moderne sono le responsabili maggiori di questo problema. Che cosa vogliamo fare? E se, non sapendo risolvere i problemi con l’ausilio della ragione, tornassimo a risolvere le guerre con il sistema degli Orazi e dei Curiazi?

 

 


PRESENTATE OGGI DUE INTERROGAZIONI AL MINISTRO DELLA DIFESA: FERITI LIEVI IN AFGHANISTAN E STANZIAMENTI URANIO IMPOVERITO

Oggi Franca Rame ha presentato due interrogazioni  urgenti al Ministro della Difesa Arturo Parisi. La prima per chiedere maggiore chiarezza sulle condizioni dei soldati italiani "feriti lievi" di cui le cronache delle missioni sono piene. Questa formula, cela le vere condizioni dei militari all'estero: che cos'ha un ferito lieve? qualche escoriazione? una sbucciatura? Gravi lesioni? Questa è la richiesta di chiarezza sulle condizioni reali dei soldati in missione.

 

La seconda interrogazione invece ha per oggetto i fondi stanziati dalla finanziaria a favore delle vittime, anche dell'uranio impoverito. Franca Rame, assieme ai Senatori Mauro Bugarelli e Marcello De Angelis chiede al Ministro Parisi chiarimenti su come e quando tali fondi saranno messi a disposizione delle vittime.

Appena arriveranno le risposte pubblicheremo tutto!

 

 

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA URGENTE AL MINISTRO DELLA DIFESA

premesso che

Da quando le nostre FFAA sono impiegate nei teatri operativi di Iraq ed Afghanistan, hanno subito un considerevole numero di attentati con relativi ferimenti di personale;

 

dalle notizie di stampa che succedono ad ogni evento di questo tipo, si apprende che i militari oggetto dell’azione bellica, riportano “lievi ferite” ma mai nessun dettaglio in merito allo stato di salute dei nostri militari;

 

l’interrogante è al corrente dell’applicazione del Codice Militare di Guerra in questi teatri;

 

l’interrogante è comunque consapevole che l’informazione costante e dettagliata dello stato di salute dei militari coinvolti in azioni di guerra deve essere interesse del Parlamento e dell’opinione pubblica;

 

Si chiede di sapere

 

-  Quanti sono stati i militari italiani feriti in azioni di guerra sia in Iraq che in Afghanistan da quando le nostre FFAA partecipano a queste operazioni;

- In quale struttura nazionale vengono curati i militari reduci da questi attentati;

- Quanti di questi militari coinvolti in attentanti non è più idoneo al servizio e quali provvedimenti sono stati attuati in merito;

- Se l’Illustre Ministro intende eliminare la riservatezza prevista dal codice militare sullo stato di salute dei militari protagonisti loro malgrado di eventi bellici;

- Il motivo per cui dal 2002 il Ministero della Difesa non ha più pubblicato il libro bianco;
 

Roma 16 maggio ’07
Sen. Franca Rame

 

**********

INTERROGAZIONE URGENTE AL MINISTRO DELLA DIFESA

Premesso che

con il Decreto del Presidente della Repubblica n° 243 del 7 luglio 2006 pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’8 agosto 2006, vengono stanziati 10 milioni di euro anche per i militari deceduti e/o reduci da teatri operativi;

 

alla data odierna non si ha notizia di alcuna elargizione dal suddetto fondo  a favore delle vittime e loro familiari come all’ oggetto del decreto;

 

al fine di evidenziare il nesso di causa – effetto patologie insorte e servizio prestato,  quasi tutti si sono già sottoposti a visite e valutazione di carattere medico legale nelle strutture ospedaliere previste al fine di ottenere l’instaurazione della causa di servizio;

 

ad oggi, nonostante siano trascorsi 2 anni dalla legge quadro e quasi un anno dal Decreto attuativo, risulta che nessuno di questi militari sia stato indennizzato;

 

è giunta altresì notizia che ad alcune famiglie di militari già deceduti, contattati da personale del ministero della Difesa, sia stato riferito che, in ogni caso, non saranno stanziati fondi a favore delle famiglie dei deceduti;

 

nella stesura del decreto attuativo è stata prevista la reiterazione dell’iter procedurale, che nei fatti è già stato sostenuto, al fine del riconoscimento della patologia, causando con ciò ulteriore aggravio di spese e di tempo per il personale addetto che, come noto, impiega per il disbrigo ordinario delle pratiche di riconoscimento delle causa di servizio per i militari, dai 3 ai 7 anni nonostante i 90 giorni previsti dalla legislazione in corso:

 

Si chiede di sapere

- Se quanto esposto corrisponde al vero,

- Se si  intende intervenire, e con quali modalità, al fine di chiarire l’estensione del diritto a tutti gli interessati, compresi i famigliari dei deceduti;

- Quali sono i tempi e le modalità di versamento delle indennità previste dal Decreto;

- Qual sia il numero dei militari e dei loro famigliari titolati al ricevimento  ad oggi in attesa di quanto previsto dal Decreto.

 

 

Roma 16 maggio 2007

Sen. Franca Rame

Sen. Mauro Bulgarelli

Sen. Marcello De Angelis

Argomento: 

Guerra aerea sotto comando Usa

 

IL MANIFESTO

Herat L'aviazione americana colpisce in accordo con il comando Nato/Isaf

 Manlio Dinucci

«Un B-1B Lancer ha sganciato bombe Gbu-31 su un edificio usato dagli insorti presso Shindand»: con questo comunicato, emesso il 30 aprile, e uno analogo il 1° maggio, la U.S. Air Force informa che, nell’offensiva condotta dalle forze statunitensi nel distretto di Shindand, nella provincia di Herat sotto comando italiano, vengono impiegati non solo soldati ma soprattutto bombardieri. Il B-1B è un bombardiere strategico per l’attacco nucleare, utilizzato con bombe non-nucleari: può sganciare in una missione 24 Gbu-31 Jdam a guida Gps da 2.000 libbre (quasi una tonnellata), che possono essere lanciate simultaneamente contro più obiettivi da oltre 60 km di distanza, più 84 Mk-82 da 500 libbre, 30 bombe a grappolo di vario tipo e decine di altre munizioni.

 La U.S. Air Force informa anche che, sempre nel distretto di Shindand, vengono impiegati cacciabombardieri F-15E Strike Eagle, che sganciano bombe Gbu-38 da 500 libbre. In una di queste azioni, «il comandante Isaf sul terreno ha richiesto che gli aerei mitragliassero un gruppo di edifici usato dal nemico: un F-15E ha sparato colpi di cannoncino e  sganciato Gbu-38 per conseguire con successo gli effetti desiderati». Il comandante dell’offensiva statunitense nel distretto di Shindand viene dunque definito, in un comunicato ufficiale, «comandante Isaf». Ciò sconferma la notizia che l’offensiva sarebbe condotta da forze Usa di Enduring Freedom indipendentemente dalla Nato/Isaf.   

 Quest’ultima, nei suoi comunicati, parla solo di operazioni militari terrestri. Esiste invece uno stretto coordinamento tra il comando Nato/Isaf e l’aviazione Usa, le cui «missioni di appoggio aereo ravvicinato alle truppe Isaf» rientrano ufficialmente nell’operazione Enduring Freedom. Non solo: nei comunicati Usa ci si riferisce spesso alle truppe Isaf come facenti parte di Enduring Freedom. Ad esempio, nell’informare che la portaerei Stennis è ritornata nel Mar Arabico per effettuare bombardamenti aerei in Afghanistan, il Comando centrale delle forze navali Usa annuncia: «La Stennis fornisce appoggio aereo ravvicinato alle truppe Isaf partecipanti all’operazione Enduring Freedom» (5 aprile 2007).

 Le truppe Isaf, comprese quelle italiane, sono dunque inserite in una unica catena di comando che, agli ordini del generale statunitense Dan K. McNeill, unifica di fatto le operazioni Nato/Isaf e Enduring Freedom. Di conseguenza anche il contingente italiano, pur non svolgendo un ruolo diretto di combattimento, ha la corresponsabilità delle stragi di civili provocate soprattutto dai bombardamenti aerei e diviene quindi bersaglio di ritorsioni. Come scrive il ministero italiano della difesa, «la provincia di Herat ha una rilevante importanza geostrategica in quanto area di congiunzione tra l'Afghanistan e l'Iran». Qui sono state messe di guardia le truppe italiane, mentre i B-1B bombardano, spianando il terreno ad altre guerre.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LA GUERRA INVISIBILE

di Antonietta M. Gatti, Laboratorio dei Biomateriali-
Dipartimento di Neuroscienze Università di Modena e Reggio Emilia

ricordiamo il numero di conto corrente per la sottoscrizione in favore delle vittime dell'Uranio Impoverito:
conto corrente postale n. 78931730 intestato a Franca Rame e Carlotta Nao
ABI 7601 - CAB 3200 Cin U
La redazione

 

 Chi vuole avere un’idea di quanto siamo tecnologicamente avanzati dia un’occhiata alle nuove guerre. Dalle poltrone del salotto, abbiamo assistito in diretta TV a bombardamenti "chirurgici" di estrema precisione con proiettili noti e alcune volte ignoti. Ignoti perché di questi conosciamo solo gli effetti, effetti, specie sulle persone, mai visti prima.

Nella prima guerra del Golfo i giornalisti avevano notato carri armati di cui alcune parti erano letteralmente scomparse. Lo abbiamo saputo dopo: in quel caso il metallo si era volatilizzato per le temperature elevatissime che si erano generate al momento dell’impatto tra proiettile e bersaglio. Si trattava di proiettili all’Uranio impoverito, un metallo di scarto che non costa nulla e che, anzi, non si sa come smaltire. E allora, ecco trovata una soluzione: usiamolo perché scoppia a 3.000 e passa gradi e fa un bel botto, però, non diciamo niente a nessuno.
Nella seconda guerra del Golfo si sono visti morti con i corpi devastati ma con i vestiti intatti. Ci siamo incuriositi: quale tecnologia poteva produrre effetti del genere? Qualcuno ha parlato di una meraviglia della chimica che si chiama fosforo bianco.

Dopo che i primi soldati europei, italiani compresi, al ritorno da missioni di pace, hanno cominciato ad ammalarsi di tutta una collezione di malattie, gli Americani hanno dovuto ammettere che, sì, avevano utilizzato sia in Iraq sia nei Balcani bombe all'Uranio impoverito. Per il fosforo bianco, invece, forse dobbiamo ancora aspettare un altro po’, benché le prove siano schiaccianti.
La radioattività residua delle aree colpite dalle bombe all’Uranio, una radioattività impossibile da nascondere perché basta andare là con un contatore Geiger da quattro soldi e in molti ci sono andati, compresi i funzionari dell’UNEP, ha indotto i mass media e la popolazione a indicarla come il responsabile delle patologie dei soldati e di chi lì abitava. Anche i bambini malformati che sono nati dopo la guerra generati da militari e da civili sono, a parere di media e di un po’ di gente, da ascriversi alla radioattività. Ne è nata, allora, una discussione globale che ha coinvolto governi, organizzazioni di ogni genere, giornalisti, esperti veri o presunti tali, e scienziati. Tutto questo chiasso, però, ha partorito ben magri risultati.

I soldati continuano ad ammalarsi (ho notizia precisa, personale, di soldati americani ammalati gravemente) e a Baghdad alcuni medici che ho incontrato mi dicono che parecchie patologie, anche mortali, sono in aumento fra la popolazione civile. Nel frattempo, in Europa è stata firmata una dichiarazione della Comunità Europea che bandisce l'Uranio impoverito. Ottimo, ma sarà sufficiente a far sparire queste patologie? Il mio parere è che no, e per un motivo molto semplice: l'Uranio impoverito è solo il mandante, non è il killer primario.

In un rapporto del 1978 scritto da ricercatori della base militare di Eglin, Florida, rimasto a dormire per 37 anni chissà dove e finito per un po’ nei meandri di Internet, ho trovato dati relativi alle sperimentazioni con bombe all'Uranio impoverito eseguite nel deserto. I ricercatori segnalano la formazione di nuove polveri in seguito all'esplosione che sono caratterizzate, tra l’altro, da dimensioni ridotte e da composizioni chimiche non omogenee che originano da tutta la materia che era presente nel punto di esplosione: il bersaglio, la bomba, il terreno. Queste polveri derivano da combustioni violente avvenute su materiali disparati e, dunque, la composizione dei reagenti è casuale. Quindi, la chimica  dipende da ciò che c’era nel “crogiolo” in quel momento.
Ciò che notavano i ricercatori è che si formavano polveri con dimensione fra i 0,2 e 0,5, micron (un micron è un millesimo di millimetro) che erano composte da diversi elementi. Raramente vi si trovava anche Uranio, benché questo costituisse il cuore del proiettile, e questo perché tre o quattro chili di Uranio fanno saltare in aria parecchie tonnellate di roba in cui l’Uranio non c’è, e, in quelle tonnellate, tre o quattro chili di Uranio diventano una rarità. I ricercatori militari americani stessi concludono il rapporto con la richiesta di verifica dell’impatto di questi polveri sull’uomo, dato che la loro dimensione è nella gamma dell’inalabile, cioè può raggiungere le parti più profonde dei polmoni.

Oggi noi classifichiamo quelle polveri come nanoparticelle, e i nanotecnologi, vale a dire coloro che costruiscono nanoparticelle in laboratorio per sfruttarne industrialmente le proprietà, pongono sulla loro possibilità d’interagire con l’organismo una grandissima attenzione, stanti gli enormi pericoli che potrebbero conseguire da questa interazione, pericoli che in parte si conoscono e in parte si sospettano.
La paura viene, tra l’altro, dal fatto che un centro dell’Università di Leuven in Belgio ha verificato che polveri da 0,1 micron, se inalate, passano la barriera polmonare in 60 secondi e finiscono nel torrente circolatorio. Il sangue, poi, le porta in tutto il corpo ed in un’ora sono al fegato e poi ai reni.

Quando sono intrappolate in un tessuto, è difficile, se non impossibile, rimuoverle.
Quello che ha sorpreso nello studio belga sono i tempi d’ingresso:
veramente ridotti ed il fatto che le nostre barriere fisiologiche contro le nanoparticelle si comportano come dei colabrodo. E’ ovvio che, non avendo, purtroppo, il nostro organismo nessun filtro efficiente, possono entrare anche particelle tossiche che una volta all’interno del nostro corpo possono estrinsecare la loro tossicità. Ma, tossiche o no, tutte queste particelle che non si degradano sono comunque dei corpi estranei che l’organismo non gradisce affatto.
Il corpo umano, quindi, reagisce come può a questo insulto. Qualora le polveri siano disseminate in ogni organo ed in quantità significativa, esiste la possibilità che la reattività biologica sia inefficace, come pure i farmaci, e le cellule non possano far altro che lasciarsi morire.

In campo nanotecnologico si è già visto che queste nanoparticelle hanno un potere ossidativo all’interno della cellula e ne determinano comportamenti anomali. Le normali difese immunitarie si rivelano inefficaci. Uno studio recente dell’Università di Plymouth (Inghilterra) che ha verificato il comportamento di alcuni pesci quando sono in acque contaminate da nanopolveri mette in luce alcuni comportamenti aggressivi di quei pesci e anche un loro stato di “affaticamento”.
Questi studi eseguiti con nanoparticelle costruite in laboratorio è in perfetto accordo con ciò che avviene in teatri bellici ove grandi quantità di nanoparticelle vengono create involontariamente dalle esplosioni o, per esempio, dai pozzi petroliferi che bruciano o dalle numerose altre combustioni che sono tipiche della guerra. E’ ovvio che chi si trova immerso in quell’inquinamento ha la possibilità di inalarlo e di mangiarlo con cibo cresciuto sotto quelle polveri, ma anche, perché no?, di fumarlo con sigarette il cui tabacco è contaminato. E sono proprio quelle particelle che noi troviamo negli organi malati dei militari.

Questi sono i nuovi, subdoli, proiettili invisibili del XXI secolo che le nuove guerre creano e di cui qualcuno deve tenere conto. Nel secolo passato si spargevano i defoglianti, chi non ricorda il Napalm con la sua diossina?. Ora, in modo più raffinato, si crea anche un inquinamento che può perdurare nel tempo perché molte delle polveri sono eterne, non avendo né la Natura né l’uomo la capacità di degradarle. E questo può far ammalare anche dopo che la guerra è finita, e chi si ammala sono i vinti, ma anche i vincitori. Cosa che è esattamente ciò che sta accadendo. Occorre che i governi e i militari prendano atto di questa nuova situazione e meditino su questi proiettili invisibili che sono tutt’altro che chirurgici e che, con il loro perdurare nell’ambiente, non sono dissimili da armi di distruzione di massa.
Prima di tutto, i militari dovranno monitorare l’ambiente e poi “filtrarlo” per quanto possibile, in modo che non si respiri la contaminazione. Occorrono sensori, occorrono maschere che le nanotecnologie possono mettere a punto e costruire. Occorre, finita la guerra, che chi ha sporcato pulisca; ma questo credo sia un’impresa impossibile, e non è questione di denaro ma di vera e propria fattibilità.

Quello che non si deve assolutamente fare è negare queste evidenze. Le patologie ci sono sia fra i soldati che hanno partecipato alla guerra sia fra quelli che assolvevano missione di pace sia fra i chi fa volontariato nelle zone a rischio sia fra i civili.
I volontari di associazioni non governative e i civili che vanno nelle zone devastate dalla guerra vanno per motivi morali e non è onesto che non li si avverta del pericolo cui vanno incontro. La cosa, comunque, che ritengo più grave è che ad un soldato che si ammali al ritorno della missione non venga riconosciuto il nesso causale fra la malattia e la permanenza in zona inquinata. Questa è ipocrita viltà.
Un soldato che si ammala e muore per pallottole invisibili in un letto e non in un campo di battaglia è sempre un soldato che è morto per la patria, qualunque connotazione si voglia attribuire a tutto ciò, e la patria, ancora una volta qualunque cosa la parola significhi, ha il dovere di riconoscere il suo sacrificio.

 


scuole per mercenari

di Rita Pennarola –

LA VOCE DELLA CAMPANIA, Aprile 2007  

 

 

 Dopo l’incarico a sorpresa affidato dal governo Prodi alla discussa big della sicurezza privata Aegis per vegliare sui civili italiani rimasti in Iraq, siamo andati a cercare l’intreccio internazionale di sigle ammantate dalla parola Pace che formano ed arruolano mercenari, fornendo ai grandi contractors manodopera superpagata e, soprattutto, svincolata da qualsiasi regola militare o etica.

 

Faranno un contract e lo chiameranno pace. Piace ammantarsi della bandiera arcobaleno, ai colossi delle milizie private nel mondo: macchine da guerra dotate di eserciti con uomini armati fino ai denti, ma sempre più spesso riunite in sigle associative che lasciano sapientemente trasparire “fini umanitari”. La Aegis Defense Services, l’agenzia privata scelta dal governo Prodi per proteggere i civili italiani rimasti in Iraq con un appalto da 3 milioni e mezzo di euro, aveva provato per esempio ad entrare fra i membri - o almeno tra i friends - della IPOA, International Peace Operations Association, che si proclama «non-governmental trade and lobbying association committed for the "Peace and Stability Industry", more commonly referred to as private military companies», vale a dire «associazione non governativa di commercio e lobbing impegnata per l’ “Industria della pace e della stabilità”, più comunemente riferita alle compagnie militari private».

Ma la Aegis non l’hanno voluta nemmeno loro, le big dei mercenari di professione aderenti all’Ipoa. La richiesta presentata dallo spregiudicato Timothy Spicer, patron della britannica Aegis, è rimasta a lungo in bilico. Colpa, forse, dei rocamboleschi trascorsi della società, più volte risorta dalle sue ceneri: la storia comincia negli anni dell’apharteid, quando proprio i sudafricani furono pionieri nel presentare l’attività mercenaria come “affare privato legale”. «Alla fine degli anni ‘80 - raccontano i giornalisti Andy Clarno e Salim Vallysi, membri della Coalizione Contro la Guerra, su Rebellion - si creó l’Executive Outcomes, che nel decennio successivo diresse le operazioni di controinsurrezione attraverso l’Africa in cambio di concessioni minerarie e petrolifere». Occhio: «Alla fine degli anni ‘90 EO si trasformò in Sandline International, che più tardi chiuse e riapparve come Aegis Defense». Proprio Aegis, la società premiata dal governo Bush con un contratto da 300 milioni di dollari per proteggere la Zona Verde al centro di Baghdad e per coordinare le attività di tutte le imprese private di sicurezza che operano in Iraq. Ed oggi prescelta da Romano Prodi e Massimo D’Alema.

Anche il passato del veterano delle Falklands Timothy Spicer non è proprio - per dirla alla Bertinotti - un pranzo di gala. A parte le notizie riportate dall’Unità sulle accuse mosse al “condottiero” britannico da un deputato del Congresso americano (per aver guidato una sanguinaria repressione in Papua Nuova Guinea, per traffico d’armi con la Sierra Leone e addirittura per aver trucidato a mitragliate un giovane in Irlanda del Nord), ci sarebbe quel filmato apparso su internet che mostra mercenari inglesi della Aegis Defense Services mentre sparano in modo indiscriminato a civili iracheni. O magari quel servizio trasmesso dalla Cnn il 13 giugno 2006: anche qui un blindato spara all’impazzata sui passeggeri di una mercedes e di un taxi per le strade della capitale irachena. “Ordinaria” amministrazione. Il Times ha calcolato che sui 200 “incidenti” avvenuti in Iraq dal novembre 2004 ad oggi con il coinvolgimento di militari privati, in ben 24 casi si è trattato di sparatorie contro passanti. Non si hanno notizie di processi e non è stato reso noto il numero di morti e feriti lasciati sul campo.

Benedetta pace, cosa non si fa per te... E cosa non farebbe ancora oggi la candida Aegis per riprovare ad essere ammessa nell’olimpo di Ipoa, tanto più che il gruppo si autodefinisce «l’espressione più etica ed efficace dell’industria della pace e della stabilità». Il presidente Doug Brooks era stato il primo ad aprire uno spiraglio, dopo che Spicer si era detto «sorpreso per l’esclusione, dal momento che era stato lo stesso management Ipoa a richiedere la nostra iscrizione». Chiaro il punto di vista di Brooks, che rappresenta il settore della sicurezza militare privata negli incontri con il Dipartimento di Stato per gli appalti di servizi nel settore difesa: «ci sono momenti - dichiara - in cui il governo non invierà le proprie truppe, ma sarà disposto a firmare un assegno».

E così gli assegni - e i miliardi di dollari - volano. Sono attualmente oltre 25 mila, nel solo Iraq, i contractor al lavoro per servizi di sicurezza, con appalti che sfiorano complessivamente gli 800 milioni di dollari. Si tratta della più grande forza di occupazione, seconda solo all’esercito degli Stati Uniti. Il fatturato degli eserciti di body guard, che rispondono alla sola logica del profitto, sono balzati negli Usa dai 33 miliardi del 1990 ai circa 100 del 2006. Secondo alcune stime, raggiungeranno probabilmente gli oltre 200 miliardi nel 2010. «Durante la prima Guerra del Golfo - ricorda il giornalista Jose Gomez - uno ogni cento soldati era un contractor privato, ma durante le guerre nella ex Iugoslavia il rapporto divenne di 1 ogni 50 ed attualmente è di uno ogni 10».

Se questi sono, per i maggiori contractors, i numeri del business in Iraq, non meno vertiginoso è il giro d’affari connesso al fitto sottobosco internazionale di sub-appaltatori, vale a dire le sigle che, da un capo all’altro del pianeta, “formano” la manodopera di cui si servono poi i big della security nei territori di guerra. Si tratta molto spesso di società o addirittura associazioni dedite al culto delle arti marziali, dentro le cui palestre si alleva quella generazione di bulli che sogna di fare fortuna all’estero, nei luoghi dei conflitti, dove la paga per un militare privato è circa tre volte quella di un ufficiale dell’esercito regolare. E poi hotels, donne, vitto in abbondanza ma, soprattutto, niente regole e niente processi in caso di “errore”. Un mito per giovani come Fabrizio Quattrocchi, una delle quattro guardie del corpo italiane rapite in territorio iracheno all’inizio dell’occupazione.

(…)Tra i contractrs c’è

la  IBSSA (il cui scopo dichiarato, a partire dalle icone lampeggianti sul sito, è quello di formare body guard), e ancora ai primi posti figura il Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace , fondato a Palermo da (…) Vittorio Busà, ma popolato di strani personaggi, a loro volta schierati a 360 gradi sullo scacchiere internazionale. Fra gli altri partner della compagine di origine ungherese figurano poi sigle come l’International Police Association, la Hungarian Police Academy, addirittura la locale Guardia Civile, senza contare la sedicente “Federazione dei priori autonomi del Cavalieri di Malta e, soprattutto, la Pro Deo University, su cui si erano appuntate più volte le attenzioni della magistratura italiana.

(…)

ENI, VIDI, VICI

Il decreto sul rifinanziamento delle missioni all'estero che assegna quasi 3 milioni e mezzo di euro alla Aegis Defence Services per proteggere la Usr (Unità di sostegno alla Ricostruzione) italiana a Nassiriya rivela la forte preoccupazione della Farnesina e soprattutto di Romano Prodi per i civili rimasti ad operare in Iraq dopo il ritiro del nostro contingente militare. Ma chi sono i destinatari di così imponenti misure di protezione decise dal governo Prodi? Se lo è chiesto il senatore dissidente espulso da Rifondazione Franco Turigliatto: «non si capisce perché ci siano ancora nostri tecnici nell'Iraq da cui ci siamo ritirati, mentre per attività civili di ricostruzione basterebbe sostenere il qualificato personale iracheno esistente. A meno che non salti fuori un interesse dell'Eni nella spartizione del bottino di guerra petrolifero». Fatto sta che il 9 marzo scorso la ong Un Ponte per... ha lanciato una “Campagna nazionale contro la partecipazione dell'Eni alla rapina del petrolio iracheno”. «Dietro le porte blindate della Green Zone - avverte l’organizzazione pacifista - si va consumando un’altra tragedia: il parlamento iracheno sta per approvare la nuova legge che regolamenterà il settore energetico e aprirà le porte ai cosiddetti “investimenti” delle grandi multinazionali del petrolio, tra cui l’italiana Eni». In pratica saranno introdotti i cosiddetti PSA (Production Sharing Agreements), «i quali consentiranno alle multinazionali enormi profitti a scapito dell’erario iracheno». Considerato che il 32 per cento delle azioni Eni sono detenute del ministero dell’ Economia e Finanze, la ong chiede con forza «che la maggiore compagnia energetica italiana non firmi accordi “immorali” approfittando dell’avventura militare costata la vita a centinaia di migliaia di civili innocenti». La petizione, inviata al Ministro dell'Economia e Finanze Tommaso Padoa Schioppa e al presidente dell'Eni Roberto Poli, ricorda come negoziati fra la corazzata energetica italiana e il governo iracheno erano stati siglati nel ‘97 dallo stesso Saddam Hussein in particolare per lo sfruttamento del giacimento di Nassiriya: proprio il luogo dove era dislocata la missione militare italiana. Più recentemente è stato l’amministratore delegato Eni Paolo Scaroni a confermare gli interessi della compagnia nelle zone dell’Iraq pacificato. Se entreranno in vigore le nuove norme, dallo sfruttamento del solo giacimento di Nassiriya l’Eni potrebbe lucrare fino a 6 miliardi di euro in più rispetto alle forme contrattuali utilizzate dall’Iraq prima della guerra.

 

 

 

Argomento: 

Prima mondiale: "Madre Pace" di Dario Fo e Franca Rame

All'International Peace Conference, organizzata da Stop the war coalition ore 21:00 presso la Pimlico School (Lupus Street, Pimlico, London SW1V 3AT) verrà rappresentato in prima mondiale il testo che Dario Fo ha scritto per Franca: "Peace Mom" ispirandosi alle lettere inviate a Bush, articoli, giornali, cronologia di Cindy Sheehan, madre di un soldato ucciso in Iraq, tradotto dal prof. Tom Behan, uno dei traduttori inglesi, che ha già trodotto altri testi di Dario e con la regia di Michael Kustow.
Il monologo "Madre Pace" (Italiano) The monologue "Peace Mom" (English)
Per la traduzione negli Stati Uniti stiamo contattando Michael Moore.
In Italia verrà rappresentato prossimamente. Il testo è visibile anche da alcatraznews.com

Anno: